Successo condivisoLa transizione energetica è una questione di valore (umano)

Dai fornitori al cliente finale, la sfida per le imprese non è solo creare profitto per l’azienda, ma anche distribuire vantaggi concreti per la società e l’ambiente

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Negli ultimi vent’anni abbiamo potuto consumare energia in maniera essenzialmente gratuita. Il prezzo del gas era intorno ai 20 €/MWh e quello dell’elettricità intorno ai 40 €/MWh. Poi, la guerra in Ucraina ha rivelato il vero prezzo dell’energia; un prezzo pagato, non solo dalle imprese, ma anche dall’ambiente. Per Mirage – azienda nel settore del gres porcellanato da oltre cinquant’anni, con clienti in 180 Paesi – la guerra in Ucraina ha messo in evidenza, non solo il problema energetico, ma anche quello di una catena di fornitura globale, fortemente integrata. Chi, come noi, produce lastre di alta qualità, acquistava le argille dalle cave del Donbas e, come noi, è stato costretto a riorganizzarsi rapidamente, trovando fornitori alternativi.

Entrambe le circostanze ci hanno costretti a riflessioni di ampio respiro. Ma, se rispetto al tema della supply chain le cose sembrano essersi, in parte, sbloccate, non si può dire lo stesso per ciò che riguarda la transizione energetica. L’industria ceramica – come anche quella del cemento, del vetro e dell’acciaio – rientra tra quelle industrie definite “hard-to-abate”; industrie per le quali è ancora difficile immaginare una decarbonizzazione. Almeno in tempi rapidi.

In primo luogo, è bene sottolineare che non è la prima volta nella storia che si matura una consapevolezza circa le conseguenze negative dello sviluppo economico. Infatti, la stessa Rivoluzione Industriale nasce da una preoccupazione ecologica. La grande espansione mercantile a cui si assistette in Europa all’inizio del 1600 comportò, prima in Inghilterra e poi nel resto dell’Europa continentale, una massiccia deforestazione. Alla penuria del legno, i governi risposero con quelle che potremmo definire le prime politiche ambientali. L’Inghilterra incentivò e detassò il consumo di carbone; in Francia, Georges-Louis Leclerc de Buffon, naturalista, sostenne che continuare a tagliare alberi avrebbe dimostrato «un’indifferenza per la posterità». Il passaggio al carbone fu, dunque, una scelta politica di sostenibilità ambientale. Che poi si rivelò ancora una forma poco efficiente e molto inquinante, passando quindi agli altri combustibili fossili: il petrolio e poi il gas, più efficienti e meno inquinanti dei precedenti.

Ma la Rivoluzione Industriale fu molto di più di una transizione energetica: fu anche un’epoca di rivoluzioni politiche, con il passaggio dall’Ancien Régime alla modernità. È durante questi anni che si costruì il legame, tuttora in essere, tra energia, potere, società e ambiente. Noi, che siamo i figli di quell’idea di modernità, e siamo figli di uno Stato costruito su fondamenta fossili – come ben spiega Dipesh Chakrabarty in Clima, Storia e Capitale – ci troviamo di fronte a una nuova preoccupazione per la posterità, che, forse, non è tanto, o non è solo, una discussione sulle energie strettamente intese, quanto piuttosto una discussione sul ripensare il governo delle città, il ruolo delle organizzazioni e quello degli individui.

Se il problema è urgente e macroscopico, perché facciamo così fatica a occuparcene in maniera concreta? Le ragioni sono da ricercare, innanzitutto, nella conformazione stessa dell’emergenza climatica. Per dirla con le parole di Paolo Giordano – in Tasmania – «l’ambiente è un argomento noioso. Lento, privo di azione e di tragedia, se non di quelle eventuali». Vivendo l’attualità dell’emergenza fatichiamo a vederne le reali dimensioni.

In secondo luogo, quando parliamo di transizione energetica diamo per scontato di parlare di sostituzione di una fonte energetica con un’altra, ma la verità è che, oggi, le fonti si sovrappongono; e non solo nel senso quantitativo del termine. Le fonti energetiche che si sono sviluppate negli anni – senza mai sostituire del tutto quelle già esistenti – hanno fatto nascere nuove dimensioni, nuovi comportamenti sociali, nuovi strumenti di guerra, nuovi mercati e nuovi equilibri geopolitici, che si sono aggiunti a quelli già in essere. Sarebbe allora più appropriato parlare di complessificazione energetica, invece che di transizione. Dunque, vi sono importanti implicazioni economiche. Da un lato, perché le fonti energetiche – come detto – muovono ingenti capitali; dall’altro, perché la neutralità carbonica richiede investimenti importanti.

E qui entrano in gioco i policy makers: nel 2020, l’Unione europea ha siglato la European Clean Hydrogen Alliance, allo scopo di promuovere lo sviluppo di progetti aventi a oggetto l’idrogeno e stimolare gli investitori. I risultati non sono – ancora – soddisfacenti. L’idrogeno viene spesso indicato come sostituto del gas naturale in settori “energy-intensive” come quello ceramico, ma la trasformazione non è così semplice e così rapida come a volte la si vuole far sembrare. Senza entrare nel merito delle tante sfide che l’idrogeno ci pone, dobbiamo per lo meno chiarire quando l’idrogeno è da considerarsi “pulito” e dar conto della difficoltà che riguarda il trasporto di questa molecola.

Pur essendo uno degli elementi più diffusi in natura, l’idrogeno non esiste in forma molecolare. È necessario produrlo per ricavarne energia. Volendo provare a spiegare un tema molto complesso in poche parole, si tenga conto che, a seconda che l’idrogeno sia ottenuto da combustibili fossili o da energie rinnovabili, si parla di idrogeno grigio o di idrogeno verde. È evidente che l’unica opzione realmente sostenibile sia quella dell’idrogeno verde, ottenuto tramite una macchina estremamente complessa, l’elettrolizzatore. E da fonti energetiche che sono per loro natura intermittenti e, quindi, molto imprevedibili e inefficienti. Una volta prodotto, l’idrogeno deve essere stoccato e distribuito. Buona parte della rete di metanodotti che irradia l’Europa non può essere utilizzata – così com’è – per veicolare l’idrogeno: servono materiali specifici e un adeguamento di tubi, valvole e stazioni di compressione. Viene allora suggerito di importare idrogeno da lontano – dal Nord Africa, ad esempio – dove si potrebbero installare i pannelli fotovoltaici necessari alla produzione di idrogeno verde. Ma, a parte la considerazione sulla effettiva convenienza di una tale soluzione, la vera domanda che in questo caso dovremmo porci è se vogliamo nuovamente perpetuare il modello di dipendenza energetica di cui conosciamo le conseguenze.

L’Unione europea si è data obiettivi ambiziosi; ma una transizione rapida, non supportata da adeguate tecnologie, comporta un aumento dell’inflazione. L’adeguamento d’infrastrutture di cui necessita l’idrogeno potrebbe dar luogo a una “corsa ai materiali” e all’aumento esponenziale dei prezzi degli stessi. Inoltre, se solo l’Europa si pone il problema, la conseguenza potrebbe essere una forte deindustrializzazione del nostro continente. Siamo allora destinati a subire quello che ci accade intorno, durante quelli che potremmo definire i “tempi tecnici” della transizione? Tutt’altro.

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