«“Boem” è un drink in lattina, leggermente alcolico e con poche calorie, orgogliosamente Made in Italy». Con questo annuncio pubblicato un mese fa sui loro profili social, Fedez e Lazza hanno lanciato una bevanda in collaborazione. Si tratta di un hard seltzer, una bibita aromatizzata, frizzante e a bassa percentuale di alcol.
La mossa commerciale dei due cantanti cavalca un’onda, quella delle alternative low/no alcohol, che in America si è da tempo dimostrata un fruttuoso settore commerciale. Verrebbe da chiedersi se si tratti dell’ennesimo adattamento europeo di un trend statunitense, che peraltro fa paura ai produttori locali di alcol tradizionale e a chi si prefigge di tutelarli. Eppure, secondo molte statistiche, questa nuova categoria di bevande rappresenta la riposta di mercato a una tendenza generazionale globale verso uno stile di vita più inclusivo e sano. O, comunque, meno alcolico.
Le richieste alimentari delle nuove generazioni, infatti, sono sempre più guidate da driver di consumo come il better for me, quindi il “meno ma meglio”, e il better for the world, vale a dire l’attenzione alla sostenibilità e ai temi sociali. I giovani costituiscono quindi un gruppo di consumatori più «esigenti», come ha definito Pierpaolo Penco, country manager Italia per Wine Intelligence, in un’intervista con il Gambero Rosso. Pertanto, secondo il manager, anche in Europa e in Italia la categoria delle bevande a basso contenuto alcolico «è destinata a una spinta».
Quello degli hard seltzer è un trend che all’estero è in rilevante crescita da anni. Solo negli Stati Uniti produce a oggi un fatturato di oltre quattro miliardi di dollari. Nel 2019, addirittura, la domanda era esplosa così velocemente e imprevedibilmente (del duecentottantatré per cento in un solo anno) che White Claw, leader nel mercato di hard seltzer, aveva dichiarato di aver esaurito le scorte a livello nazionale.
Gli hard seltzer sono bibite gassate con una variabile alcolica oscillante tra il tre e il cinque per cento, arricchite da aromi di spezie o di frutta. Oltre alla duttilità del contenitore in lattina e all’attenta estetica del packaging, il segreto del loro successo sta nella gradazione alcolica non eccessiva e nel ridotto apporto calorico.
La pandemia da Covid-19 ha indotto una maggiore consapevolezza dei rischi alla salute, fisica e mentale. E nemmeno l’alcol sembra essere stato risparmiato. Proprio all’inizio di quest’anno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha infatti annunciato per la prima volta che un livello di consumo di etanolo sicuro per la salute fisica non esiste. Secondo la Fondazione Veronesi, bere alcolici spiana infatti la strada a lungo termine a sindromi psicotiche, cardiomiopatie, gastriti, pancreatiti e malattie neurodegenerative.
E i ragazzi sembrano aver recepito il messaggio. Un rapporto di Berenberg Research ha confermato, infatti, che i Gen Z bevono meno dei giovani delle generazioni passate, più precisamente circa il venti per cento di alcol pro capite in meno rispetto ai millennial alla loro età. Aumentano anche gli astemi, la cui percentuale in età universitaria è cresciuta dal venti al ventotto per cento negli ultimi due decenni, come riportato da uno studio dell’Università del Michigan.
Secondo un articolo della BBC, anche l’insicurezza economica gioca un ruolo importante nella tendenza a diminuire il consumo di alcol delle nuove generazioni, che preferiscono risparmiare sul costo dei cocktail. Viene registrata, poi, anche una tendenza verso esperienze alcoliche di qualità tra i giovani. Uno studio della fine del 2021 ha rilevato, infatti, che i ventunenni statunitensi preferiscono liquori, champagne e bevande con poco o nessun alcol, rispetto a grandi quantità di vino o birra (il cosiddetto binge drinking).
Così dal trend della sober curiosity nascono delle vere e proprie community sui social, come #SoberTok su TikTok, che normalizzano l’astemia e diffondono informazioni sul tema. E le aziende stanno rispondendo di conseguenza.
Non è un caso che anche la più grande compagnia di bevande (non alcoliche) al mondo, The Coca-Cola Company, abbia investito in quelle a basso contenuto alcolico. Nel 2021, infatti, ha lanciato un seltzer prodotto da Topo Chico, marchio di acqua minerale frizzante messicano ora ampliato, in partnership con la multinazionale Molson Coors Beverage Company. Oppure Diageo, la più grossa multinazionale al mondo di bevande (stavolta alcoliche), che, sempre nel 2021, ha lanciato il Tanqueray 0.0%, cioè la versione zero alchool del Tanqueray London Dry, uno tra i gin più venduti al mondo.
Così il leggermente alcolico sembra approdare anche oltreoceano. Al momento, il mercato delle alternative low o zero alcol vale 7,5 miliardi di euro solo in Europa, secondo uno studio di Areté, azienda italiana specializzata nella valutazione delle politiche agroalimentari. In Italia, la ricerca ha stimato che il mercato delle bevande alternative ai superalcolici vale circa otto milioni di euro.
Se questo dato potrebbe sembrare un numero ridotto rispetto ai promettenti settantotto milioni della Francia, per Enrica Gentile, project manager del progetto di Areté, il settore «è ancora in una fase iniziale di sviluppo in tutti i paesi membri – dice – ma le attese per i prossimi anni sono di crescite complessive a due cifre».
Ci sono, infatti, ancora molte barriere anche solo a livello burocratico, che, se superate, potrebbero snellire lo sviluppo di questa nicchia di mercato. Ad esempio, non esiste ancora una definizione legale di “bevanda alcolica” e non è stato determinato un quadro normativo sul tema condiviso dai vari Paesi membri.
Ma tra le alternative low alchool non ci sono solo i seltzer. Tra loro si fanno strada anche le versioni analcoliche di vino e spirits, settori che al momento in Italia valgono ben trecentoventidue e centosessantotto milioni di euro rispettivamente. Queste novità hanno spaventato la Coldiretti, che al Vinitaly di Verona del 2021, con la mostra “Non chiamatelo vino”, ha denunciato la scelta della Ue di autorizzare nell’ambito delle pratiche enologiche l’eliminazione totale o parziale dell’alcol anche nei vini a denominazione di origine.
Mentre per il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, il trend del vino analcolico rappresenta «una demonizzazione indiscriminata in atto», altri hanno un’opinione diversa. L’Unione Italiana vini ad aprile ha pensato, ad esempio, alla dealcolazione dei vini come possibile soluzione al problema di giacenza delle botti, che è stata registrata in aumento del 5,1 per cento, quindi per oltre sessanta milioni di ettolitri. I vini dealcolizzati, infatti, sono vini ai quali viene sottratta, anche solo parzialmente, la componente alcolica mediante alcune tecniche tecnologie, permettendo quindi il riutilizzo delle bottiglie sovraprodotte e rimaste invendute.
«Attivare questa opzione in Italia non impatterebbe sulla produzione tradizionale di vino, anzi aprirebbe uno sbocco di mercato alternativo», ha detto il segretario generale dell’Unione italiana vini, Paolo Castelletti.
Assecondare la tendenza dei poco alcolici, quindi, non andrebbe a soppiantare gli imprenditori locali. Secondo Giacomo Bombana, ufficio stampa di Velier, la più grande azienda indipendente italiana di importazione di alcolici, per quanto si tratti di un trend in crescita, «è difficile che l’Italia registri i volumi di leggermente alcolici dell’estero, dove in generale si consuma più alcol e più distribuito durante la giornata». Sarebbe anzi un’occasione, secondo Bombana, di creare uno spazio sociale anche per chi non può bere alcolici, per motivi pratici (ad esempio se deve guidare), di salute o religiosi.
Le bevande low alchool, pertanto, potrebbero non solo rispondere a una richiesta più salutare della clientela più giovane, ma anche ripensare, in modo economicamente e socialmente positivo, una produzione nazionale.