Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Etc dedicato al sistema moda, cliccate qui.
Dove sono finiti gli uomini di una volta? Ce lo si chiede oggi, non presi dalla nostalgia verso tempi andati nei quali le convenzioni sociali e la buona creanza richiedevano ai maschi una maggiore galanteria nei confronti del genere femminile, o anche solo una maggiore intraprendenza, ma proprio perché gli uomini di una volta non ci sono più o, quantomeno, stanno attraversando una profonda crisi esistenziale. E così la fragilità, questa caratteristica dell’essere umano comunemente abbinata alla figura della donna, sembra aver intaccato anche loro, sempre più incerti sui canoni morali ai quali prestare solenne giuramento.
Lo hanno detto anche le ultime passerelle milanesi, dove due nomi tremendamente diversi per notorietà ma uguali per peso specifico e spessore del loro racconto, hanno riflettuto proprio sul concetto di fragilità. Da Maison Valentino, Pierpaolo Piccioli è partito dal libro best seller di Hanya Yanagihara, Una vita come tante – con l’autrice nel front row della sfilata – per riflettere proprio sulle ferite sempre più evidenti del maschile odierno. Il libro, in una sua nuova edizione ad hoc, era infatti il vero e proprio invito alla sfilata, a ribadirne l’importanza centrale per la stagione primavera/estate 2024: per chi non l’avesse letto (nessuno, a sentire gli invitati all’evento, tenutosi nel cortile centrale dell’Università Statale di Milano) segue la storia di quattro amici a New York, dall’adolescenza fino alla mezza età. Per la sua vastità potrebbe essere considerato un classico bildungsroman ottocentesco, un romanzo di formazione, e ha scatenato nel 2015 nel quale è uscito, ma anche negli anni successivi, parimenti reazioni entusiaste e critiche.
Le seconde sono arrivate principalmente per quella che è stata definita una visione dell’omosessualità fin troppo dolente. Nella realtà, la sfilata di Maison Valentino parlava di vulnerabilità, del rifiuto di una certa estetica del potere, che sta prepotentemente tornando dagli Anni Ottanta, e persino del kintsugi, l’arte ceramica giapponese del 1400 che ripara ciò che è rotto con la lacca urushi, una lacca specifica che contiene polvere d’oro e d’argento. I pezzi risultanti mostrano le proprie ferite con orgoglio, non apparendo per questo meno belli, e sono infatti forse più preziosi. Una rivendicazione di fragilità non in quanto debolezza ma come rinnovata umanità che si è poi traslata su un guardaroba sartoriale classico ma gentile, con fiori come leggeri elementi grafici al posto delle cravatte più istituzionali, e che è arrivata con uno strano e certamente non programmato tempismo, a pochi giorni dalla morte di Silvio Berlusconi, da sempre simbolo di una certa mascolinità dai tratti quasi burlesque, apparentemente inoffensiva perché guascona, ma che ha sempre considerato le donne come un accessorio da selezionare sulla base dei gusti.
Magliano, invece, fresco del premio Karl Lagerfeld vinto all’Lvmh Prize, ha mandato in scena una collezione che prosegue nel solco delle precedenti, e che racconta una mascolinità ai margini, ma non per questo sconfitta. In questa specifica occasione con il suo approccio da Dr. Frankenstein, capace di creare un uomo nuovo mettendo insieme ferite e strappi, ha citato tra le sue ispirazioni la santità delle preghiere di Teresa D’Avila e i precetti punk di Bruno Pompa, storico direttore creativo del Cassero, scomparso lo scorso anno. E la sua fragilità è evidente nei copricapi che sembrano arrangiati, effimeri, tenuti insieme da nodi, così come nei pezzi in nylon ibridato che sembrano aprirsi e ricongiungersi per magia, spezzarsi e sbucciarsi come una ferita aperta.
Le riflessioni dei due designer, non sono solo peregrinazioni creative, ma frutto di una profonda empatia, di una capacità di immergersi nello spirito dei tempi e coglierlo. Perché che la mascolinità classica sia in crisi, lo si dice ormai da un po’. Di recente l’autore angloamericano Richard V. Reeves, studioso di ineguaglianze e mobilità sociale ha messo insieme dei dati, e partorito Of Boys and Men: why the modern male is struggling, why it matters and what to do about it ( edizioni Brookings). Il libro, del 2022, fa in tutti i sensi i conti con uomini sempre più in difficoltà. Solo per citare alcuni numeri: le studentesse dei paesi in via di sviluppo, nonostante si trovino di fronte a considerevoli problemi con l’uguaglianza dei sessi (Reeves cita l’esempio della Corea del Sud), registrano voti migliori degli studenti.
Ovviamente, il divario si avverte ancora di più in paesi dove la lotta per la parità è invece molto più avanti, come la Svezia (e proprio in Svezia si parla ormai da tempo di pojkkrisen, la “crisi dei ragazzi”). Nel 2009 la top ten dei migliori studenti liceali americani nel loro primo anno era composta principalmente da donne. I ragazzi, invece, hanno il doppio delle probabilità delle ragazze di ricevere diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività così come il doppio della probabilità di essere sospesi. Il loro tasso di abbandono scolastico è molto più alto di quello delle donne. I più giovani infine, vedono le possibilità di morire per suicidio quadruplicate rispetto alle coetanee donne.
Se Atene piange, però, Sparta non ride: di certo non si può parlare di parità nelle difficoltà, visto che solo un decimo dei Ceo nella lista di Fortune 500 (classifica dell’omonima rivista che cataloga le maggiori aziende statunitensi) è donna. Il numero, però, è salito di ventisei volte rispetto al Duemila quando in quella lista c’erano solo due donne. Su cinquecento. Le donne, sostiene Reeves, solo in questi ultimi anni hanno fatto evidenti passi avanti nella lotta per l’uguaglianza, molti di più di quanti non siano stati fatti nei secoli precedenti, sono la maggioranza del corpo universitario americano attualmente, in campo medico e giuridico, e rappresentano un terzo degli attuali laureati in discipline scientifico-tecnologiche e più del quaranta percento di quelli laureati invece nelle scuole di economia. In un dettagliato articolo del The New Yorker di questo gennaio, What’s the matter with men, si spiega grazie all’aiuto di economisti di Harvard come Claudia Goldin che a continuare a fare la differenza, e mettere le donne in condizioni di inferiorità, e con stipendi minori nonostante i dati parlino di performance migliori, non è più tanto la discriminazione diretta (come ad esempio il sessismo) quanto quella indiretta legata ai condizionamenti sociali e agli accordi casalinghi, che sfavoriscono le donne, a cui sono delegati tutti i ruoli di cura della casa, degli anziani, dei figli.
Il gender pay gap aumenta proprio quando le donne hanno dei figli e riducono le ore lavorative. Non si tratta quindi, secondo Reeves, di un declino delle possibilità maschili di avere una vita di successo – verso la quale la società li predispone di default, oggi come ieri – ma significa solo che, ad oggi, gli uomini hanno smesso di approfittare di queste possibilità, rimanendo inermi. Il pezzo del New Yorker è molto dettagliato e ve ne consigliamo la lettura, e centra il punto: parlare di fragilità maschile, ad oggi, vuol dire parlare anche e soprattutto di privilegio di classe. Lo ribadisce proprio Luchino Magliano, che abbiamo interrogato in merito a questa sua ossessione per un maschile non di certo risolto, ma sicuramente privo della tossicità alla quale siamo abituati. «La fragilità è un argomento che abbiamo raffinato man mano e ricercato sempre di più nel tempo e ormai la usiamo come paradigma. Sicuro ha a che fare col bisogno di smantellare il maschile o di celebrarlo solo quando è ai margini, fragile appunto. Vorrei aggiungere che parlare di maschile senza parlare di classe, parlare di qualunque cosa senza parlare di classe è soltanto una sega inutile perché il tema del contemporaneo è questo: la classe, il privilegio. Fare moda, bisogna farci i conti con sta roba, significa imporre un modello: nessuno può scegliere i propri clienti ma di certo puoi scegliere il tuo pubblico, a me i forti son sempre stati sul cazzo, a me piacciono il coraggio, la vertigine, l’erotico, il non conforme. Viene dalla mia storia e lo considero un dovere: dedicare il mio lavoro a chi resiste».
Se però si vuole fare una disamina anche storica di come certi codici sociali si sono tradotti nel passato in uno specifico guardaroba, rimasto inamovibile e immodificato fino ad oggi, dobbiamo andare indietro di almeno due secoli. A sostenerlo è Maria Cristina Marchetti, direttrice del dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza e autrice del libro Moda e politica: la rappresentazione simbolica del potere, edizioni Meltemi: «Se andiamo guardare agli ultimi due secoli l’abbigliamento maschile nasce dal gran rifiuto dell’uomo alla moda sancito dall’avvento del capitalismo moderno. Nel passato le cose non sono sempre andate così: nel Settecento gli uomini indossavano scarpe col tacco, abiti dai colori tenui con pizzi e merletti, parrucche, gioielli, condividendo con le donne la scena della moda ma anche dell’espressione dei sentimenti. Invece con la rivoluzione industriale l’uomo indossa una divisa costituita da un completo grigio o prevalentemente scuro fatto da giacca e pantaloni. L’abito segnala la totale identificazione dell’uomo col suo ruolo professionale: il borghese capitalista, l’imprenditore, l’uomo d’affari, il manager, il professionista affermato. Nasce così una divisa che arriva immutata fino ai nostri giorni e che ha influenzato il power dressing maschile di esponenti del mondo dell’economia e della politica finalizzato a segnalare il loro potere e il successo. La frivolezza della moda è lasciata alle donne per segnalare l’assenza di un loro ruolo sociale ben definito.
Anche la Chiesa, negli ultimi secoli, ci ha messo del suo: la religione cattolica, ma poi anche le altre seppur in maniera minore hanno sempre prescritto quali erano i canoni vestimentari accettabili per presentarsi come esseri umani degni, dignitosi, uomini di fede, ma prima di tutto “uomini”. Forse in maniera causale oppure no, la chiesa cattolica sta attualmente attraversando una profonda crisi reputazionale. Sarà la situazione storica, la mancanza di risposte concrete alle angosce che attanagliano il genere umano, e che non possono essere risolte con vaghe promesse sul regno dei cieli, ma si evidenza negli ultimi anni un calo generalizzato ad esempio nel numero di battesimi e matrimoni. L’analisi Quali Preti? Per quale Popolo? Condotta dall’Università Cattolica che si appoggia sui dati Istat “Aspetti della vita quotidiana” che misura la frequentazione dei luoghi di culto, ha mostrato uno scenario poco allegro per il clero. Secondo i dati nel 2040 non ci sarà nella diocesi ambrosiana nessun nuovo prete con meno di trent’anni, mentre il numero dei battesimi si è ridotto di quasi un terzo, passando da poco più di trentacinquemila ne 1995 a poco oltre i diecimila nel 2022 con una tendenza decrescente iniziata nel 2005 e mai fermata.
Stessa cosa dicasi per i matrimoni religiosi che a Milano si riducono più che altrove (sia in Lombardia che in Italia): se nel 2011 più del cinquanta percento delle nozze cittadine si celebravano in chiesa, nel 2020 siamo scesi al trenta percento. Di base, però, si va in chiesa meno spesso: se sempre nell’area milanese dieci anni fa il trenta percento degli abitanti dichiarava di essere andate a messa negli ultimi dodici mesi, quella percentuale è oggi scesa al diciotto percento. Se parliamo di dati meno locali, è già dal 2017 che si parla di crisi della chiesa cattolica (non che a quella anglicana vada meglio): secondo lo studio pubblicato nel 2017 dal Pew Research Center sulla diffusione delle diverse religioni Il cristianesimo sta letteralmente morendo in Europa, come ha detto al Wall Street Journal senza girarci troppo intorno Conrad Hackett, il capo dei ricercatori che hanno stilato il documento del Pew.
La popolazione cristiana dell’Europa dovrebbe ridursi di circa cento milioni di persone nei prossimi decenni, passando da 553 milioni nel 2010 a 454 milioni nel 2050. Nel frattempo in Germania, in Scozia o nei Paesi Bassi, le chiese continuano ad essere chiuse. Delle settemila chiese esistenti in Olanda, ad esempio, quattromila figurano come monumenti e le altre, sempre più disertate dai fedeli, cambiano destinazione d’uso. Ogni anno sessanta edifici di culto chiudono nei Paesi Bassi, oppure sono venduti o demoliti. Dal 1970 al 2008, 205 chiese cattoliche sono state demolite e 148 convertite in librerie, ristoranti, palestre, appartamenti e moschee. Si calcola che delle restanti chiese, il venticinque per cento sia nelle mani di congregazioni con meno di cento fedeli. Sono anch’esse destinate a scomparire. Una crisi della fede che forse ha come conseguenza la liberazione da certi dogmi, anche legati al guardaroba, e che identificavano la morale di un individuo e la sua mascolinità con degli abiti precisi. A sostenere che il clima storico di oggi ci stia naturalmente spingendo verso una visione più ampia del concetto di maschile, è proprio Pierpaolo Piccioli, che ci ha risposto così, quando gli abbiamo chiesto perché ha sentito l’urgenza di parlare di fragilità:
«La pandemia, le crisi economiche e le guerre negli ultimi anni hanno forzato l’umanità a un’accelerazione inaspettata. Si è realizzato che le fratture nell’animo e la vulnerabilità sono una risorsa da cui trarre forza e oggi si percepisce quanto sia legittimo mostrare le proprie fragilità, dopo averle vissute in maniera collettiva. Si è consapevoli di ciò che si è e non si sente la necessità di correggersi. Dopo una lunga immobilità, ogni persona è stata investita da una profonda trasformazione: io la voglio raccontare. Venti anni fa la libertà di rompere gli schemi era vissuta solo in alcuni contesti, come quello della musica e delle sottoculture. L’uomo di oggi sta provando ad acquisire consapevolezza della forza nella propria fragilità, a esplorarla e a esprimerla. Coltiva una nuova “tenerezza” che finalmente gli consente di mostrare il proprio romanticismo in tutta la sua complessità, senza dover necessariamente ricoprire un unico ruolo sociale. È l’idea opposta alla dittatura della perfezione, del successo e dell’edonismo: parla di intimità, imperfezione e resilienza. La moda riflette la società in cui viviamo. L’identità dell’uomo Valentino risiede in questa fragilità consapevole, in questo romanticismo multiforme. Io credo che i vestiti non abbiano genere, i vestiti non pensano, non agiscono, non riflettono. I vestiti sono una libera scelta di chi li indossa. Oggi gli uomini possono essere se stessi ed esprimere la loro identità anche attraverso gli abiti. Interrogare tutti gli stereotipi che identificano il genere ci ha dato una grande opportunità. Credo che ascoltare e raccontare il romanticismo, la grazia e l’individualità sia l’unico modo per trattare femminilità e mascolinità in maniera più matura».
Se però è ormai evidente un cambiamento nel concetto di mascolinità, oltre ad evidenziare una crisi dei valori classici e anche religiosi, sono ancora da definire pienamente i motivi causa di questo giro di boa. Secondo la professoressa Marchetti, però, ci sono due interpretazioni possibili: «Mi vengono in mente due possibili interpretazioni: il sistema di appartenenze multiple che caratterizza gli individui contemporanei di fatto scardina ogni schema predefinito. Si possono assumere identità plurime che non vincolano ad una appartenenza e questo è profondamente liberatorio per la moda. Dall’altra parte mi viene in mente un dibattito recente relativo al significato del lavoro nella vita delle persone, nato in Francia dopo la riforma del sistema pensionistico voluta da Macron, che ha probabilmente scalfito un sistema di valori che ha attribuito alla realizzazione nel mondo nel lavoro un ruolo centrale nella vita degli individui. Le giovani generazioni rifiutano questo imperativo categorico del lavoro: e allora i capi di abbigliamento che Valentino ha fatto sfilare rimandano a giovani uomini consapevoli del mondo interiore, che mettono a nudo la loro fragilità, che rinvia ad altri modi di essere, e che segnala un rifiuto a chiudersi in schemi socialmente definiti nei ruoli professionalmente definiti, un cambiamento molto importante dal quale dovremo aspettarci conseguenze rilevanti per le società future».
Come infine nota Ross Douthat nel suo pezzo d’opinione No culture for alienated men, pubblicato sul New York Times, nella stessa settimana sono venuti a mancare Silvio Berlusconi, lo scrittore Cormac McCharty e Ted Kaczynski, il terrorista americano più conosciuto come Una bomber. I tre, pur nelle loro immense differenze, sostiene Douthat, erano tutti variazioni su un tema dell’alienazione maschile, del rifiuto dei classici schemi sociali. La forza fisica, la violenza, servono a poco in una società post-industriale: di certo servono molto meno che in passato e ciò di residuale che rimane di quel tipo di ideologia oggi deve essere “addomesticato”, ridotto. Chi non riesce a farlo, interiorizza la rabbia e la deforma, come è successo con Unabomber, che ha immaginato rivoluzioni per tornare ad un antico stato delle cose, lasciandosi alle spalle solo una scia di morti come eredità. Berlusconi ha invece trasformato il machismo tossico in intrattenimento televisivo, facendolo apparire meno pericoloso, perché divertente in maniera guascona, mentre McCarthy con i suoi libri ha immaginato spesso universi passati carichi di violenza, o futuri, dove la civilizzazione che conosciamo è sostanzialmente ridotta alla cenere. La mascolinità dei suoi uomini è la loro capacità di resistere a queste condizioni fisiche e sociali estreme, letteralmente di sopravvivere.
Una pura coincidenza, la loro dipartita a pochi giorni di distanza, e che però suona molto simbolica. Perché forse fragilità non è necessariamente il contrario di forza, ma può essere il sinonimo di adattabilità: è quando siamo più fragili, di fronte ai nostri limiti e alle nostre piccole e grandi tragedie personali, che siamo più capaci di cambiare, di realizzare rivoluzioni, perché il momento ce lo richiede, e non si accontenta di null’altro. E dopo secoli di una mascolinità ottusa e ormai inservibile, forse quel momento è davvero arrivato.