TrattatiLa distanza tra giornalismo e giornalista non è mai stata così grande come in questo momento storico

Le parole hanno un peso per tutti ma se a metterle per iscritto è un professionista la ponderazione dovrebbe essere un dovere

Ph credits Valentine Tenevoy, Absolute Vision, Fabrique du Cinema

Tutti i cittadini  – secondo quanto stabilito dalla Costituzione italiana – hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, compresa ovviamente la stampa che non è soggetta – salvo casi specifici – ad autorizzazioni o censure. La bramata libertà di stampa, in certi contesti è chiamata non a caso Quarto Potere. Orson Welles dedica nel 1941 un’intera pellicola alla ricostruzione di un caso giornalistico ma l’origine sociologica di questa espressione sembra risalire al 1787. In quest’epoca in Inghilterra, durante una seduta alla Camera dei Comuni del Parlamento, il deputato Edmund Burke si rivolse ai cronisti seduti nella tribuna stampa parlamentare dicendo: «Voi siete il quarto potere!». In coda a legislativo, esecutivo e giudiziario.

Fino a prova contraria, il primo articolo del testo unico dei doveri del giornalista riporta:
«L’attività del giornalista, attraverso qualunque strumento di comunicazione svolta, si ispira alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione italiana ed è regolata dall’articolo 2 della legge n. 69 del 3 febbraio 1963.
«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori […]».

C’è inevitabilmente un gusto quasi distorto e perverso di voler vedere quando e chi cadrà in fallo. Non importa se il colosso, la multinazionale o il piccolo oste. Tra clienti, giornalisti, critici, colleghi e ora anche gli influencer, in qualche modo ci si sente sempre sotto una lente di ingrandimento. Le professioni stesse lo sono, passate ai raggi x: il modo in cui si fa ristorazione, la modalità con cui si porta a termine un servizio, la scelta di un piatto o quel piatto.

Una delle più grandi difficoltà di chi scrive (non tutti, ça va sans dire) è non aver masticato in vita sua la materia per la quale agitatamente batte le dita sulla tastiera riempiendo fogli bianchi. Questo vale un po’ a tutto tondo sui settori sopra citati, ma è inevitabile che il comparto ristorazione, per sua natura democratica e culturalmente sempre più determinante, sia quello stressato. Forse, siamo arrivati al punto in cui è giusto chiederselo: forse stiamo perdendo di vista che cosa ci viene veramente richiesto nel momento in cui in qualità di giornalisti siamo chiamati a scrivere. Esattamente come un cuoco viene chiamato a cucinare, nella sua cucina o altrove.

Qual è il nostro compito, dove stanno doveri ed etica lavorativa ma soprattutto, dal nostro punto di vista, dove sta il lettore? Perché denunciare in copertina e a toni drastici un hotel a cinque stelle con un progetto di ristorazione firmato da un tristellato, umanamente e professionalmente stimato a livello internazionale, a poco più di un mese dall’apertura?

C’è chi tra colleghi giustamente approva la voce (finalmente) fuori dal coro, capace di “criticare” nel senso etimologico corretto del termine e fare osservazioni, a sostegno di una causa. C’è modo e modo. Utilizzare l’immagine di un professionista che è persino stato invitato a parlare all’ONU perché una cena è andata male – anzi molto male a leggere le parole usate – non è corretto. Fa click, questo è certo.

Ci sono falsità in quello che leggiamo? Quasi certamente no. Ed è più che probabile che in una macchina così complessa come una nuova mastodontica apertura con bar, terrazza, ristorante, bistrot e boutique dolci ci siano delle frizioni. Sono ingranaggi oltremodo complessi da avviare, monitorare e rendere efficienti e soprattutto standardizzare, ma chi è del settore ne è consapevole (dovrebbe). A maggior ragione chi scrive, che può a sua volta avere fonti privilegiate dove reperire dati e spiegazioni.

Dov’è finita la ricerca? Dove abbiamo nascosto l’individualismo a discapito dell’omologazione? Il titolone fa sempre effetto, non c’è che dire. Il nostro ruolo ci chiede di raccogliere informazioni, documentarle, farle forti di testimonianze, fregiandoci persino di avere canali preferenziali attraverso cui accedervi. Perché nel nostro racconto, la contestualizzazione è determinante.

Uno degli insegnamenti più costruttivi alle prime armi di questo mestiere è pensare sempre a chi ci si rivolge, quale vuole essere il nostro interlocutore finale. E in un momento storico in cui il click conta più di una verità nero su bianco, la viralità dell’informazione ci è pressoché sfuggita di mano. La deriva dell’integrità di questa professione, oltre la meritocrazia, oltre l’etica lavorativa, ha iniziato a sgretolarsi anni fa, con l’avvento delle piattaforme digitali e un’accessibilità – e gratuità – sempre maggiori all’informazione.

A gennaio 2021 il Reuters Institute of Journalism ha pubblicato il suo report sul futuro del giornalismo e sulle principali tendenze. Lo studio si basa su sondaggi verso editori e dirigenti di progetti editoriali digitali nei media: il 53 % delle 234 persone intervistate in 43 differenti Paesi si è dimostrata sfiduciata sul futuro del giornalismo. «Le preoccupazioni maggiori riguardano la crescita della disinformazione, gli attacchi ai giornalisti e la tenuta finanziaria delle testate più piccole e di quelle locali».

Pochi mesi dopo Ferruccio De Bortoli, due volte direttore del Corriere della Sera nonché alla guida del Sole 24 Ore dal 2003 al 2009, affermava: «Tra gli under 35, tre quarti delle persone tendono ad affidarsi principalmente ai social per accedere ai contenuti. Dunque il giornalismo sta perdendo la battaglia per l’attenzione e la fiducia del pubblico? “La nostra sconfitta”, consiste nel non essere riusciti a dimostrare che un’informazione di qualità ha un valore (e un prezzo)».

Ernesto Auci, predecessore di De Bortoli di un pugno di anni nella direzione dello stesso giornale, rincarava la dose: «Oggi siamo di fronte a un’involuzione della professione, in cui non c’è quasi più l’intermediazione del giornalista. Gli utenti dei social si fanno anche loro giornalisti, portatori di opinioni spesso vaghe e non verificate. Il rischio è che gruppi di persone agiscano per danneggiare la tenuta dei sistemi democratici, diffondendo informazioni prive di concretezza. Occorre fermare questa deriva? Io credo di sì».

Oggi come oggi la nostra categoria ne ha viste di cotte e di crude, si è vista calpestata e mutata così come magistralmente rappresentata da autori, direttori, giovani leve particolarmente capaci e determinate. Tuttavia, c’è qualcosa che più di altro negli ultimi tempi è stata travisata. La verità. Al pubblico di oggi – più ancora di quello di ieri – serve sincerità, non benzina da gettare sul fuoco con cui riempirsi la bocca al bancone di un bar. Serve accuratezza e non superficialità. Responsabilità e non accuse. Umiltà professionale. Profondità. Di pensiero, di scrittura, di idee e, se vogliamo, anche di ideali.
Teniamolo a mente. Per tornare a fare niente meno che ciò che amiamo di più.