Domani avremo modo di vedere e commentare le conseguenze dell’istituzione di un nuovo reato universale – quello di surrogazione di maternità – che il populismo penale “bambinista” innalzerà a vessillo di intransigenza morale e la Camera dovrebbe approvare oggi in prima lettura.
Un reato comunemente (e ignorantemente) paragonato a quello della tratta di esseri umani o al commercio di schiavi, ma con una pena massima edittale, stabilita dallo scandalizzatissimo legislatore, di dieci volte inferiore. Non venti, ma due anni, meno della rivelazione di segreti d’ufficio, pratica notoriamente abusata dalla fratellanza meloniana.
Nell’attesa merita forse qualche considerazione anche la strategia, diciamo così, progressista delle opposizioni, che non è quella dell’unità su una posizione chiaramente contraria al reato universale, ma della divisione interna su una posizione ambivalente, né esplicitamente a favore, né completamente contraria alla gestazione per altri.
È il medesimo errore compiuto sul regolamento europeo in tema di filiazione, dove le opposizioni non sono state capaci e, alcune di esse, neppure hanno voluto difendere gli uguali diritti familiari di tutti i minori all’interno dell’Unione europea come questione del tutto indipendente dalle molteplici differenze delle norme nei diversi ordinamenti europei in materia di fecondazione assistita (e non solo di Gpa).
Questa dialettica dei contrari per cui non esistono – cioè non possono, né devono esistere – posizioni diverse da quelle puramente proibizionista e antiproibizionista – per cui se sei davvero contro il reato universale devi essere come minimo a favore della Gpa solidale – deriva da un paradigma ampiamente abusato e inaugurato, in modo rivoluzionario, e con una ben diversa aderenza alla realtà del fenomeno, ai tempi della battaglia sull’aborto.
Eppure l’apparente contiguità tra le due condotte e tra i rispettivi presupposti di diritto – «Se l’utero è “mio”, perché posso abortire “mio” figlio e non posso gestare quello di un terzo?» – occulta una differenza sostanziale, che peraltro rende assai arduo ridurre ogni alternativa bioetica a quella tra (supposti) valori individuali e (presunti) valori collettivi, cioè, in sintesi, tra libertà e potere.
L’aborto infatti fu una battaglia di potere, molto più che di libertà, cioè in primo luogo di riappropriazione da parte delle donne del diritto di interrompere la gravidanza, come corollario necessario del diritto di “volerla” e non solo di “subirla”. Come il divorzio nel 1970 anticipò la riforma del diritto di famiglia del 1975, con l’affermazione della piena uguaglianza dei coniugi, l’aborto nel 1978 trasferì questa inedita uguaglianza sul piano procreativo.
La riproduzione cessava di essere un adempimento familiare o una funzione sociale impersonale e diventava un riconosciuto potere femminile. Infatti la battaglia sull’aborto andava di pari passo con quella sulla contraccezione, sull’informazione sessuale e sulla maternità consapevole. La legalizzazione dell’aborto non serviva affatto per abortire – l’aborto illegale era molto più diffuso e semplice di quanto mai sarebbe stato quello legale – ma per spezzare il legame tra il sistema dell’aborto criminale e quello – si direbbe oggi – del potere patriarcale, dentro e fuori la famiglia.
Siamo esattamente all’estremo opposto dalla rivendicazione di un diritto alla commodificazione volontaria del corpo femminile e della funzione procreativa: non occorre affatto considerarla mostruosa o disumana per ammettere che risponde a tutt’altro paradigma bioetico e, soprattutto, a un diversissimo obiettivo politico. Non quello di emancipare la funzione procreativa da una condizione di oggettiva subordinazione, ma di scongiurare gli abusi legati a una condizione in cui non esiste, né può esistere, alcuna “uguaglianza di potere” tra le parti negoziali e, soprattutto, tra la parte maschile e quella femminile.
Che le forze pro Gpa sembrino al momento tutte attestarsi sulla posizione della Gpa altruistica o solidale, da questo punto di vista, più che una prova di gradualismo riformista sembra una dimostrazione di tartufismo virtuista, uguale e contrario a quello della destra.
Sia chiaro: è ovvio che dal punto di vista biopolitico la Gpa solidale ha caratteri assai diversi da quelli della Gpa commerciale. Il caso della donna senza utero cui una familiare o un’amica presta generosamente il proprio riporta, quasi perfettamente, al caso della donazione di rene da vivente tra consanguinei. Non è certo uguale, invece, il diritto garantito nei due casi, che in un caso non è neppure quello alla salute – ma quello sociale alla genitorialità biologica – nell’altro, drammaticamente, quello alla sopravvivenza.
Di tutt’altro tipo è il caso della donazione da vivente a persone sconosciute che, giuridicamente, non è possibile fare in modo “personalizzato”. Questa donazione, cosiddetta samaritana, è a favore della collettività, non di uno specifico paziente in attesa di trapianto ed è il servizio sanitario ad accoppiare donatore e ricevente secondo criteri di compatibilità clinica.
In ogni caso, queste donazioni coprono una quota infinitesimale del fabbisogno di organi: ve ne sono state in Italia meno di una decina in più di un decennio. Inoltre, una Gpa solidale sovrapposta allo schema della donazione samaritana implicherebbe comunque, anche a fronte della modifica delle previsioni della legge 40/2004, il divieto della negoziazione diretta tra committenti e gestanti.
Quel che è certo è che la Gpa solidale, in assenza di questa restrizione, tranne casi molto particolari e quasi esclusivamente intra-familiari, sarebbe semplicemente lo schermo di transazioni economiche occulte, come l’esperienza dei (pochi) Stati dell’Unione europea in cui la Gpa solidale è consentita dimostrano abbastanza inequivocabilmente.
Se la legalizzazione dell’aborto scoperchiò – contro l’ipocrisia del divieto formale – una realtà di violenza, di cui Pannella denunciava il fondamentale connotato “di classe” (le figlie dei ricchi si operavano nelle cliniche svizzere, quelle dei poveri finivano alla mercé di mammane e cucchiai d’oro), la legalizzazione della Gpa altruistica finirebbe semplicemente per dissimulare – dietro il paravento della solidarietà personale – una realtà di sfruttamento, che la fictio legis di un amorevole presepe procreativo, dove ogni madre surrogata è Maria e ogni bimbo è il figlio dello Spirito Santo, priverebbe semplicemente delle garanzie del lavoro retribuito. Cosa che la Gpa è e sarà – sia per chi la vuole legale, sia per chi no – e su cui è assai difficile immaginare battaglie di diritto che non siano anche battaglie di verità.