Great Resignation, Quiet Quitting, Smart Working. E poi ancora Soft skill, Mismatch, Climate Quitting. Non riusciamo a smettere di coniare nuovi termini anglofoni per descrivere quello che accade nel mercato del lavoro, soprattutto dopo la pandemia. Etichette spesso grossolane e frettolose, ma che ci servono per fare ordine nel complicato “Lavoro del lavoro”, come si intitola un libro molto utile, scritto da Aldo Bottini e Alberto Orioli e pubblicato dal Sole 24 Ore.
Un avvocato giuslavorista il primo, vicedirettore ed editorialista del Sole 24 Ore il secondo. Nel dialogo tra i due punti di vista, si prova a spiegare cosa sta accadendo nel magma incandescente del lavoro senza più scrivanie, orari, cartellini. Dove tutto cambia e tutto resta come prima. Dove contemporaneamente ci sono quelli che si dimettono per cambiare lavoro e trovarne uno più bello e gli immigrati che lavorano per pochi euro nei campi di mezza Italia e in sella alle bici che sfrecciano nelle nostre città.
Un libro che è un compendio delle trasformazioni in atto, tra problemi irrisolti e questioni ideologiche. Tra le luci dell’industria 4.0 e le ombre dello schiavismo dietro i pomodori che costano un nonnulla. Tra la maggiore propensione dei giovani a scegliersi i datori di lavoro e i finti contrattini da false partite Iva che molti sono costretti ad accettare.
Il lavoro come crocevia dei principali cambiamenti sociali e del rapporto tra generazioni. Ma anche terreno di scontro politico, semplificazioni e banalizzazioni da destra e sinistra che hanno avuto come risultato il totale immobilismo.
Intanto, il rimbalzo economico post pandemia e l’alta domanda di lavoro hanno portato le aziende a contendersi i candidati. Attraction e retention, altri due termini inglesi, sono diventati l’ossessione di qualunque convegno in cui si parli di risorse umane – pardon – talenti, come si preferisce chiamarli oggi.
Non solo vanno attirati nuovi talenti, sempre meno a causa del calo demografico, ma bisogna trattenerli per evitare che vadano a lavorare a altrove. E quindi via a iniziative per migliorare il wellbeing, il benessere, attraverso nuove forme di welfare aziendale e work-life balance, l’equilibrio vita-lavoro che con gli orari flessibili dovrebbe essere – non sempre – facilitato. Senza dimenticare che un ambiente di lavoro più inclusivo può risultare più attrattivo. Da qui le campagne per la Diversity, Equity and Inclusion delle grandi aziende. Mentre contemporaneamente esistono le baraccopoli di Rosarno e le finte coop della logistica con paghe da fame e zero tutele.
Le parole esotiche del lavoro, più o meno abusate, si affiancano a una sbandierata lotta alla precarietà come slogan elettorale. Mentre le tendenze emergenti – qui interviene il giuslavorista – che alterano il lavoro subordinato e il tempo di lavoro come lo abbiamo conosciuto finora richiederebbero pochi annunci e una nuova impalcatura di diritti e tutele.
I canoni del giuslavorismo, eccellenza del diritto italiano, sono sottoposti a stress test da diversi anni e non sembrano aver ancora trovato una soluzione equilibrata tra l’esigenza della tutela dei diritti con le necessità di flessibilità del lavoro contemporaneo. E così robot, piattaforme e intelligenze artificiali convivono con vaste aree di lavoro poco qualificato e povero. Mentre si assottigliano le classiche differenze tra dipendenti e autonomi. Gli scenari del lavoro si fanno differenziati e frammentati. Con una complessità che va ben oltre i termini anglofoni e gli entusiasti proclami mensili sui numeri in crescita degli occupati.
La realtà dietro le percentuali, come al solito, è più complessa. Ci sono i part time involontari, i lavori manuali tutt’altro che innovativi che fanno perdere la vita ancora a troppi lavoratori, i giovani che timbrano il cartellino e fanno i concorsi pubblici e quelli che si licenziano per andare a lavorare in una startup che garantisce il nomadismo digitale.
Il tempo è sempre meno la misura dello scambio alla base del lavoro. Si sperimenta, si parla di settimana corta e giornate asincrone. L’orario di lavoro è sempre meno un totem diviso dal resto della vita, nel bene e nel male. E il lavoro stesso si frammenta in una miriade di pixel, mansioni, task, contratti, doppi e tripli lavori e scrivanie.
Serve un nuovo approccio flessibile e non ideologico, scrivono Bottini e Orioli. Anche sulla questione degli stipendi, che in Italia – si sa – sono mediamente troppo bassi. Ma non si può parlare di salari se non si parla anche di produttività come unica strada per creare ricchezza da redistribuire. La terapia che passa dalla riduzione del cuneo fiscale è solo parte della soluzione. Così come la definizione di un salario minimo, che scalda gli animi e divide le tifoserie.
Lo stesso accade con la grande questione della formazione e delle competenze. Da qui, dicono tutti, passa il futuro del lavoro. Se ne parla ovunque, dai più grandi convegni internazionali alle più piccole riunioni della provincia più sperduta. Ma poi le competenze non si trovano. E se ci sono, sono poche. La formazione si fa, e molto spesso è inutile.
E via al mantra della necessità delle politiche attive del lavoro, altro grande evergreen. Tutti dicono che serve il lifelong learning. Che dobbiamo essere costantemente aggiornati, fare gli assessment e lavorare sull’occupabilità. Poi basta fare un giro nei malandati centri per l’impiego per capire che non è certo da qui che passa “il lavoro del lavoro”. Un lavoro qualsiasi non basta più. Figurarsi un qualsiasi centro per l’impiego.