Certo, aiuta avere quello stile che solo chi è un po’ di Londra e un po’ di Parigi, e che nessuna scuola di portamento può donarti se sei cresciuta tra Scurcola Marsicana e Conegliano Veneto, se non sei la francese col nome inglese che proprio non riesce a non essere chic, neanche quando simula orgasmi senza mai, mai, mai sembrare un mignottone.
Certo, aiuta avere fatto tre figlie con tre uomini di genio, e che le ragazze abbiano preso dalla madre forse il fascino ma certamente non la bellezza, e che agli incontri pubblici loro stessero inerpicate sui tacchi scomodi di chi non è abbastanza sicura di sé per non portarli, e tu avessi le Converse, e che quindi anche ben dopo i settant’anni, guardando loro e te, non si potesse che ribadire che avremmo fatto sempre e comunque a cambio con la vegliardaggine tua.
Certo, aiuta che quella che per decenni è stata la borsa più chic del mondo – poi sono arrivate le Victoria Beckham, le Kim Kardashian, le ricche senza gusto che non avevano la tua capacità di sembrare una barbona elegantissima – abbia preso il nome da te, costringendoti a ripetere in una vita d’interviste la storiella del proprietario di Hermès cui in aereo (era un Concorde? Sicuramente era un Concorde: era un secolo serio, mica c’era RyanAir) dici che ti servirebbe proprio una borsa capiente, e quello t’inventa la Birkin, che le ricche senza gusto portano come fosse la valigetta del portavalori e temessero di graffiarla, e tu portavi disegnata, sformata, janebirkinizzata.
Certo, aiuta che tutto quel che sfioravi diventasse leggenda nel male o nel bene, la tua prima figlia che si butta da una finestra a quarantacinque anni, la scimmia di pezza cui da piccola raccontavi i fatti tuoi messa nella bara di Serge Gainsbourg (il più leggendario dei tuoi compagni di vita, nessuno dei quali faceva il pizzaiolo).
Certo, aiuta essere la figlia della musa di Noël Coward, mica d’una massaia e d’un commercialista, aiuta avere consuetudine con la leggenda, non dover mai dimostrare niente a nessuno, ereditare quel basso profilo che è inutile provare a emulare, avere una madre che, quando le fai sentire il 45 giri di te che mugoli con Gainsbourg, si toglie d’imbarazzo dicendo «sublime melodia».
(La più formidabile opera di Jane Birkin è ovviamente stata Jane Birkin. Tra le opere minori, il Blow-Up di Antonioni, e appunto quella canzone di orgasmi simulati. Che s’intitolava con un gioco di parole, “Je t’aime, Moi non plus”, ti amo, neanch’io. Oggi ci sarebbe qualcuno che sconsiglia a Gainsbourg l’uso d’un titolo così poco largo: poi la gente non capisce).
Certo, aiuta aver fatto tutto all’età giusta, separarti dal padre della tua terza figlia a 45 anni e a quel punto non raccontare mai più niente della tua vita privata, aver avuto abbastanza relazioni pubbliche, abbastanza rotocalchi, abbastanza cose in tempo da non aver bisogno d’averne fuori tempo, da non aver bisogno di compensare con ridicoli amori senili raccontati a Instagram, a Point de vue, ai talk-show del pomeriggio. Non bisogna ripetere le cose meno bene di come si sono fatte una volta, dicevi con l’invidiabile serenità di chi non deve rifarsi dei mancati flirt giovanili.
Ma tutto questo non sarebbe bastato, a Jane Birkin, per diventare Jane Birkin, se non avesse avuto quell’ossatura. Quell’ossatura della faccia che le ha permesso di tenersi i denti separati senza sembrare mai una portuale, quell’ossatura del corpo che lei non è mai stata così sgraziata da sottolineare quanto fosse una benedizione, un corpo gamine che ti fa stare bene addosso qualunque abito, che ti fa sembrare pronta per il tappeto rosso con una maglietta bianca. Era così di buone maniere da giurarci che era stato un vero complesso, non avere tette, non avere fianchi, da mentire dicendo d’essere proprio una di noi che a scuola non ci piacevamo. E noi fingevamo di crederci, perché era Jane Birkin, e aveva l’aspetto di Jane Birkin, e con quell’aspetto anche le menzogne banali sono fascinose: fingeva gelosia verso Brigitte Bardot, ma lo sapeva lei come lo sappiamo noi che quelle come BB si sfasciano, quelle come JB no.
In questo tempo menzognero in cui fingiamo che i canoni estetici non esistano, che ognuna sia bella a modo suo, che Lizzo valga Kate Moss, Jane Birkin stava lì a ricordarci che sì, certo, puoi pesare duecento chili e stare in copertina, ma se non sei stata fortunata con la genetica quella tua copertina richiederà ore e ore di trucco e parrucco e illuminazione e guaine contenitive e vestiti fatti apposta per te da stilisti che figurarsi se abitualmente fanno quelle taglie per le quali serve più stoffa che per un tendone da circo. Mentre se sei Jane Birkin puoi entrare in uno studio televisivo con un maglione infeltrito e far dire a Serena Dandini, cui ridendo veniva da piangere d’invidia (come a tutte noi), «ce l’hai tu nell’armadio un tacco alto, ’na piuma de struzzo, ’na paillette?». (Birkin le aveva risposto che uh, nelle vite precedenti sì che ne aveva messe di paillette, ma era perché aveva quel modo lì: di chi mica ha bisogno di rimarcare superiorità, ci pensa la sua ossatura, a farlo per lei).
Se sei Jane Birkin e non ti va di metterti il reggiseno, sei irresistibile; se sei una di noi mortali, sei una pescivendola. Se eri Jane Birkin, potevi essere Jane Birkin. Se eri noialtre, potevi tutt’al più immedesimarti nella seconda parte di quel titolo. Jane Birkin, moi non plus.