Può sembrare che il viaggio non sia altro che uno spostamento nello spazio. Spostarsi dal punto “A” al punto “B” non è tuttavia un’attività neutra. Durante il tragitto si producono continui cambiamenti e, all’arrivo, spesso né il viaggiatore né la strada percorsa hanno lo stesso aspetto che avevano in partenza. Il percorso è l’archetipo (quando non il sinonimo) del viaggio stesso: in Walkscapes, un libro dedicato al cammino come pratica estetica, Francesco Careri mostra come percorrere tragitti a piedi sia stato il primo modo con cui l’uomo ha dato significato al territorio che lo circondava, estraneo e minaccioso.
Ancora oggi camminiamo nelle fasi della vita in cui abbiamo bisogno di nuovi riferimenti spaziali: cambiamo casa, cambiamo città, e la prima cosa che facciamo è una passeggiata nel quartiere per tirare fili invisibili tra noi e alcuni punti rilevanti per il nostro orientamento. Per stabilizzare questi percorsi effimeri sono nate le mappe, strumenti che permettono di conoscere ciò che ci circonda al di là dello strettamente visibile. Ma che cosa succede se sottraiamo al viaggio le unità minime con cui lo identifichiamo, la “A” e la “B” dei punti di partenza e arrivo?
È questo il gesto con cui l’artista genovese Luca Vitone ha realizzato una delle sue prime serie di opere, le Carte atopiche. Queste consistono in mappe a cui l’artista sottrae i toponimi, rendendole di fatto perfettamente realistiche (prive di elementi convenzionali ma, di fatto, inesistenti, come i nomi dei luoghi) e, allo stesso tempo, inutili e irriconoscibili.
La prima mostra dedicata alle Carte atopiche si è svolta alla Galleria Paolo Vitolo di Milano nel 1993. In occasione della mostra è stato stampato un saggio del geografo Massimo Quaini dal titolo Il mondo come rappresentazione. Quaini, insieme a Franco Farinelli, a partire dagli anni Ottanta ha contribuito a mettere in discussione l’oggettività delle mappe che conosciamo (quelle “a volo d’uccello”), mostrando quale tipo di “progetto” sul mondo si sia imposto attraverso quel tipo di mappatura. Anche se l’uomo abita da sempre lo spazio, non da sempre abita lo stesso spazio: ogni sua rappresentazione (cioè ogni tipo di mappa) fa riferimento a uno specifico “spazio di rappresentazione” che le corrisponde, cioè a uno specifico concetto di spazio che si evolve storicamente.
Le Carte atopiche colpiscono il fondamento stesso della cartografia che conosciamo, cioè il suo supposto realismo, che crolla appena si sottrae un elemento del tutto convenzionale e umano come il nome dei luoghi. Ciò che diventa manifesto nelle opere di Vitone è proprio l’astrazione sottesa alla mappa moderna che, a differenza delle mappe precedenti, non contiene elementi iconici, riconoscibili anche senza indicarne il nome. Grazie alla loro precisione teorica e formale le Carte atopiche sono un’opera perfetta per muovere i primi passi “altrove”, cioè in quel territorio che sta al di là delle nostre consuete rappresentazioni dello spazio, oltre le bussole convenzionali con cui ci orientiamo ogni giorno.
Pochi decenni prima di Vitone, negli anni Cinquanta, il movimento filosofico-sociologico Internazionale Situazionista cercava di reinterpretare lo spazio urbano attraverso pratiche che rompessero i limiti imposti dall’urbanesimo razionalista. L’IS e, in particolare, Guy Debord inventarono la deriva psicogeografica: un camminare senza meta prestando attenzione alle dinamiche che si susseguono in noi e fuori di noi mentre percorriamo diversi spazi metropolitani. Incontri inaspettati, cambiamenti nelle architetture, comparsa o dissoluzione di processi sociali visibili. Geografie emotive, sensazioni, emozioni, sentimenti che si susseguono nello spazio: sono questi gli elementi della dérive. Il risultato di questa pratica sono le mappe psicogeografiche come The Naked City, disegnata da Debord per Parigi.
Il risultato è un’opera in cui dei ritagli della Guide Taride de Paris – una nota mappa a volo d’uccello del primo arrondissement – vengono riposizionati e inseriti in un sistema di linee e frecce che simboleggiano i percorsi, le direttrici del cammino. Questa mappa trae la sua forza dalla scelta di cambiare il punto di vista: il Debord-cartografo non si pone in alto, in una posizione di potere estranea e superiore a ciò che rappresenta, ma cerca di mescolarsi, di perdersi, di fondere i propri strumenti e le proprie intenzioni con l’oggetto a cui si rivolgono. Attraverso il détournement della mappa parigina Debord disegna un vero e proprio altrove imbevuto di elementi sociali, architettonici, estetici ed emotivi che normalmente vengono tagliati fuori dalla rappresentazione tradizionale dello spazio. Ancora una volta non è necessario andare lontano per trovare un “altro” territorio.
Sia l’opera di Vitone sia quella di Debord criticano il potere che agisce nello spazio attraverso la mappa. Simon Sadler, autore di uno degli studi più ampi sul rapporto tra città e situazionismo, scrive infatti che «le mappe sono state fatte tradizionalmente da chi desidera imporre il suo ordine sopra la città». È interessante notare come l’evoluzione della rappresentazione cartografica vada molto spesso di pari passo con la necessità da parte di un potere di imporsi su un dato spazio, progettandolo secondo le sue necessità.
Il lavoro dell’artista Shabtay Pinchevsky dal titolo The Jefferson’s Grid risponde proprio a questa suggestione e ne mostra l’impatto visivo: The Public Land Survey System è infatti una griglia geografica imposta da Thomas Jefferson al termine del xviii secolo, nel momento in cui l’America stava espandendo i propri possedimenti nelle grandi praterie dell’Ovest in seguito alla Rivoluzione americana. Pinchevsky ha raccolto numerosissime immagini satellitari di lotti (agricoli, urbani, misti) che ancora oggi conservano la forma imposta più di due secoli fa allo scopo di rendere più facile la gestione di territori sterminati privi di un reale controllo statale.
Le immagini di The Jefferson’s Grid mostrano bene come una rappresentazione geografica sia immediatamente una struttura di potere. In questo caso è particolarmente evidente perché, al contrario di ciò che accade di solito, è lo spazio che si uniforma perfettamente alle regole di una mappa prescelta; ma l’effetto insieme prescrittivo e descrittivo della rappresentazione cartografica è una costante dello strumento stesso.
La mappa impone un certo limite (qualitativo o quantitativo) spaziale, ma così facendo apre la strada della sua evasione. Si può andare oltre nella carta stessa, come fa Vitone mostrando l’essenziale alterità del territorio rispetto alla mappa, oppure rendere manifesta l’agency che la mappa ha o ha avuto sullo spazio, come nel caso di The Jefferson’s Grid. Infine, si può andare oltre alla maniera di Debord, creando cioè una mappa che dia nuova identità a uno spazio noto cambiandone i connotati.
Parlando di mapping, non possiamo non citare quella oggi più nota, usata da milioni di persone per orientarsi e spostarsi ogni giorno: Google Maps. Per il progetto 9 Eyes l’artista americano Jon Rafman dal 2008 raccoglie screenshot dalla street view del noto motore di ricerca creando un archivio sterminato di scene paradossali. Le immagini raffigurano di tutto, dalle sparatorie agli animali selvatici, dagli incendi di autocarri alle prostitute agli angoli della strada, fino a un’infinità di fondoschiena di persone che hanno scelto di mostrarsi così di fronte all’auto-Google. Questi frammenti di vita danno l’impressione di frantumare quella quarta parete di oggettività che ci aspettiamo da Maps. Si tratta di incursioni nel quotidiano, ma all’interno di un dispositivo che pretende di rappresentare quest’ultimo nella sua perfezione e, così facendo, non fa altro che portare in evidenza lo stesso falso presupposto delle mappe tradizionali.
Altrove, quindi, è ovunque. Se la mappa è sempre uno strumento di potere, superarla (o attraversarla) può voler dire andare alla ricerca di un territorio libero da rappresentazioni imposte. Un territorio che molto spesso, come abbiamo visto, si trova a portata di mano. Basta prestare attenzione a ciò che ci circonda, toccarlo, odorarlo, ascoltarlo in ogni momento senza scartare le nostre sensazioni come elementi soggettivi e irreali di poco conto.
Per orientarsi senza mappe, o per lo meno senza un solo tipo di mappa, non si possono guardare solo le strade, i nomi, i punti “A” e i punti “B”, tutte cose che esistono solo se si guarda dall’alto con un occhio estraneo e alienato; ma bisogna tornare all’altezza delle cose, immergersi in esse dando importanza a ciò che davvero può donare inerzia e direzione al nostro personale cammino. A volo a radente, fino a sfiorare il limite tra corpo ed emozioni.