È proprio una nemesi sovranista che descrive plasticamente cosa significa enfatizzare l’interesse nazionalistico che nulla a che fare con quello nazionale. Quest’ultimo, dentro una cornice unitaria, viene moderato, reso complementare con quelli degli altri Paesi con i quali si intende raggiungere un obiettivo più alto. La contrarietà di Polonia e Ungheria al patto sull’immigrazione e sulla distribuzione obbligatoria è esattamente il contrario. È l’atteggiamento che oggi danneggia Giorgia Meloni, ma era lo stesso che teorizzava lei quando era all’opposizione.
Oggi il sovranismo in tinta nazionalista è un’illusione del passato che, visto dalle stanze di Palazzo Chigi, ha un sapore amaro perché impedisce all’Unione Europea di fare passi in avanti verso una forma sempre più federativa. Passi che consentirebbero di avere un’Europa politicamente più forte, capace di autonomia, addirittura un’Europa «autarchica» come la stessa presidente del Consiglio, forse con un lapsus, si è lasciata sfuggire l’altro ieri in Parlamento. «Europa autarchica» nella sicurezza economica, nel controllo e nella difesa delle catene produttive, insomma autosufficiente per non esporre la Ue alle dipendenze straniere.
Sono le categorie che la destra ha sempre propugnato per la Nazione, ma che ora Meloni applica allo spazio economico continentale perché si rende conto che soli non contiamo un fico secco. Ma facendo questa operazione cancella di fatto quelle categorie originarie che, di fronte al problema migratorio, erigono ancora i suoi principali amici. Quel Viktor Orbàn, che le ha baciato la mano quando si sono incontrati al vertice europeo e che ha accusato esplicitamente l’Unione europea di volere creare «ghetti di migranti» in ogni Paese. «Il mio governo – ha tuonato il magiaro – combatterà questa oltraggiosa procedura simile a un colpo di Stato». Addirittura.
Chissà se lo ha ripetuto proprio così all’amica italiana durante l’incontro a tre con il premier polacco, Mateusz Morawiecki, che con la Meloni condivide il gruppo dei Conservatori. I due vorrebbe far parte di una nuova maggioranza europarlamentare ed entrare dalla porta principale nella nuova Commissione dopo le europee del 2024 accanto ai Popolari. Le premesse sono già complicate se ieri fonti del Ppe, riportate dall’Ansa, hanno fatto sapere che Meloni è rimasta incastrata: «I problemi in casa sono il peggior tipo di problemi».
Meloni ha cercato di convincere i due amiconi, soprattutto il polacco. «Tu quoque, Mateusz», che fai parte del Partito Conservatore di cui sono presidente. Non puoi bloccare l’operazione del governo italiano che ha sudato le proverbiali sette camice per ottenere il riconoscimento dei confini italiani come se fossero quelli europei, con tutto ciò che ne consegue in termini di patti e di soldi da dare ai Paesi magrebini. Niente da fare, l’accoglienza obbligatoria ai polacchi e ungheresi non piace. Non piace il presepe costruito dagli ex sovranisti italiani, rimasti impigliati nella rete di Varsavia e Budapest. Finisce che venticinque su ventisette votano una dichiarazione di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, sulla distribuzione obbligatoria che però non compare nelle conclusioni del Consiglio europeo.
Meloni non si dà per vinta. Annuncia che mercoledì andrà a Varsavia per continuare la mediazione. Alla fine, aggiunge con un giro dialettico, il problema non è la dimensione esterna ma la distribuzione obbligatoria tra i Paesi europei. Del resto, «non sono mai delusa da chi difende i propri interessi nazionali. La questione che pongono polacchi e ungheresi non è peregrina». Anzi, giustifica Ungheria e Polonia perché si stanno occupando di più dei profughi ucraini con risorse europee non sufficienti. Pur di non dire che gli amici sbagliano, pur di non incrinare le alleanze elettorali, Meloni comprende i loro problemi.
Non dice loro di essere «ragionevoli», come ha fatto Antonio Tajani. Non fa una piega nemmeno quando Orbàn non vuole dare altri soldi agli ucraini, nega che il capo del Cremlino sia «un criminale di guerra», considera la Ue «sull’orlo della bancarotta» e chiede a Zelensky di rendicontare i soldi che finora ha ricevuto. «Un cosa è chiara – ha scandito alla radio del suo Paese – noi ungheresi non daremo più soldi all’Ucraina fino a quando non diranno dove sono finiti i precedenti fondi per un valore di circa 70 miliardi di euro».
Meno male che c’è lui, l’ungherese che portava Matteo Salvini a far vedere i fili spianti al confine e Meloni sulla terrazza del Parlamento di Budapest per ammirare il «bel Danubio blu», in quella sala del Palazzo Europa. È l’unico, Orbàn, al vertice europeo, che solleva l’animo di Putin, che in questi giorni di amarezza sta tribolando con un po’ di traditori in casa sua.