Un giorno dopo la condanna a tre anni per diffusione di «notizie false», il colpo di scena. Patrick Zaki ha ricevuto la grazia presidenziale e potrà tornare in Italia, dove è atteso oggi. La sentenza del tribunale di Mansoura non lasciava possibilità d’appello: salvo, appunto, il perdono di al-Sisi, cui spetta(va) l’ultima parola. Insieme a lui ne ha beneficiato anche Mohamed al-Baqer, l’avvocato di Alaa Abdel Fattah, detenuto politico.
Ieri, a tarda serata, il ricercatore (a inizio luglio si è laureato a distanza) si trovava ancora al commissariato dove era stato portato dopo la condanna. Lì lo aspettano gli uomini dei Servizi segreti che hanno la missione di riportarlo nel suo Paese d’elezione. Bologna lo aspetta: il rettore dell’ateneo e i suoi amici hanno detto che intendono trasformare la sua festa di laurea in un evento allargato a tutta la città.
I giornali oggi registrano il sollievo della famiglia e degli amici che solo martedì si erano disperati, temendo di perderlo di nuovo. La fidanzata Reny aveva rivelato che stavano pianificando il loro matrimonio. Un sogno, ora, di nuovo possibile.
Il governo ha celebrato il lavoro diplomatico. È cominciato quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi, con il primo ritorno in libertà di Zaki. È continuato con l’attuale esecutivo, a partire dalla Cop27 a Sharm-el-Sheik. Da gennaio, in una serie di incontri e con due visite del ministro degli Esteri Antonio Tajani, Roma offre collaborazione sulla crisi alimentare, istruzione, lotta al terrorismo.
Il 6 luglio Meloni e al-Sisi, riporta il Corriere, si sono sentiti dopo il vertice del Programma alimentare dell’Onu che ha concesso all’Egitto 431 milioni di dollari di aiuti. La svolta, repentina, va inquadrata in questo «disgelo» ed è arrivata, come consuetudine, a ridosso della festività islamica del capodanno e a pochi giorni dalla riunione sulle migrazioni, domenica a Roma, a cui l’Egitto parteciperà (magari chiedendo altre contropartite).
Mentre l’Italia tira un sospiro di sollievo per Zaki, per cui si chiude un calvario durato più di tre anni, resta aperta la ferita di un altro caso, che porta il nome di Giulio Regeni. Il ricercatore veniva rapito, torturato e ucciso al Cairo nel gennaio di sette anni fa. Nella vicenda, le autorità egiziane si sono distinte per i depistaggi e la collaborazione inesistente.
Quando i magistrati italiani hanno rinviato a giudizio quattro uomini dell’intelligence egiziana, la battaglia per la giustizia si è arenata perché il Paese non ha notificato loro gli avvisi di garanzia: irreperibili e, quindi, coperti dallo Stato che oggi viene ringraziato per la «collaborazione».