Quando ho cominciato a leggere i giornali e a interessarmi dell’attualità, tra i quattordici e i quindici anni, l’Italia era nel pieno della più grave crisi mai attraversata dal suo sistema politico, quella del 1992-93, segnata dalle inchieste di Mani Pulite che stavano decapitando la classe dirigente del paese, dalla crisi finanziaria che imponeva di colpo drastiche misure di risanamento dei conti (favorendo un’associazione assai rozza tra corruzione e spesa pubblica di cui non ci saremmo più liberati), dall’ascesa nell’Italia settentrionale di un movimento apertamente secessionista come la Lega Nord.
La fine traumatica della Repubblica dei partiti portò alla ribalta una nuova classe dirigente e nuovi argomenti. Tra le varie ricette elaborate nel corso degli anni precedenti da un variegato fronte di studiosi e politici che avrebbero presto preso il sopravvento (sia le ricette, sia gli intellettuali-politici) si affermava quindi in quegli anni, insieme con le battaglie referendarie per il maggioritario, e con tante altre cose su cui non mi dilungo, anche a sinistra, la parola d’ordine del federalismo come soluzione alla «questione settentrionale». Più in generale, e quel che è peggio, si affermava l’idea che la via maestra per risolvere i problemi italiani fosse un’ampia gamma di riforme istituzionali.
Tra i principali esponenti di quell’ampio fronte di studiosi e politici c’era Franco Bassanini, che sarebbe stato anche tra i principali artefici della riforma federalista varata dal centrosinistra nel 2001, in forme peraltro controverse, cioè a maggioranza e praticamente alla vigilia della campagna elettorale, sebbene sulla base di un testo che era stato già oggetto di ampia convergenza nella commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema. In quegli anni uscivo dal liceo, dove avevo fatto un po’ di politica, e cominciavo l’università.
Nel 2016, invece, ero già grandicello, e di queste cose mi occupavo ormai come giornalista, ma la riforma del titolo V della Costituzione era ancora al centro del dibattito (come del resto le riforme istituzionali ed elettorali in genere), per via dell’ennesima grande riforma, promossa questa volta da Matteo Renzi, e per via del relativo referendum confermativo, finito come sappiamo, cioè nel nulla, esattamente come la precedente grande riforma del centrodestra, bocciata dal referendum dieci anni prima. Anche lì, tra le altre solite cose, c’era di mezzo il federalismo, con la cosiddetta devolution di Roberto Calderoli.
Oggi siamo nel 2023, io ho compiuto ormai quarantacinque anni, ma sui giornali di ieri ho letto come fossi ancora al liceo l’intervista in cui Franco Bassanini spiegava le ragioni delle sue dimissioni dalla commissione incaricata di stabilire i Lep (livelli essenziali delle prestazioni) necessari per poter procedere con la riforma federalista (oggi si preferisce parlare di «autonomia regionale», forse per dare l’impressione che sia qualcosa di nuovo), insieme con altre autorevoli personalità come Giuliano Amato, Franco Gallo, Alessandro Pajno, in aperta polemica con l’attuale ministro per le Riforme istituzionali (già il fatto che da trent’anni esista un simile ministero dovrebbe dirci qualcosa, ma evidentemente non vogliamo sentire). Il ministro in questione, va da sé, è quello stesso Roberto Calderoli già ministro per le Riforme nella legislatura 2001-2006 (per la precisione dal 2004, subentrando a un altro esimio costituzionalista di nome Umberto Bossi), nonché autore della summenzionata riforma federalista bocciata dagli elettori ben sedici anni fa.
Se adesso vi aspettate che vi dia il mio parere sulla decisione di dimettersi degli studiosi dimissionari o sulla riforma del ministro per le Riforme, evidentemente non mi sono spiegato, o forse siete proprio voi che non volete cogliere il punto.
Questo gioco è cominciato quando avevo quindici anni, ora ne ho quarantacinque e il punto è proprio questo: che siamo sempre allo stesso punto. Possibile che io sia l’unico a trovarci qualcosa che non va? Davvero si può continuare a discutere di federalismo, devolution e autonomia regionale, e naturalmente anche di leggi elettorali maggioritarie all’americana, doppio turno alla francese e collegi uninominali all’inglese, e poi ancora di cancellierato alla tedesca, premierato forte, presidenzialismo o semipresidenzialismo, come se fosse tutto perfettamente normale, per oltre trent’anni filati?
Proprio perché ormai ho quarantacinque anni e non ho più né le energie, né l’entusiasmo, né il tempo da perdere che avevo a quindici, sono disponibilissimo a prendere in considerazione tutte le possibili soluzioni, ma non sono disposto a perdere un solo altro minuto della mia vita a discutere con chi non vede il problema.