The Institute of Masters of Wine è la più autorevole e antica organizzazione dedicata alla conoscenza e al commercio del vino. Nata nel 1953 ha incoronato i primi super esperti nel 1955. L’Italia ci ha messo quasi 70 anni per avere un nome tra quelli che oggi sono i 418 “dei” dell’Olimpo del vino: è stato Gabriele Gorelli nel 2021 a diventare il primo Master of Wine italiano e oggi è proprio lui, dal suo profilo instagram, il primissimo a congratularsi con il secondo italiano ad arrivare al titolo. È Andrea Lonardi, Chief Operating Officer di Angelini Wines & Estates a raggiungere il riconoscimento e la felicità italiana è palpabile nelle parole di Gorelli e nei tanti attestati di stima che seguono.
Ma perché tanto entusiasmo? Perché conquistare questo titolo è davvero un’impresa ardua e perché non c’è una menzione così importante nel mondo. L’Institute of Masters of Wine è la sede di competenze eccezionali nel mondo del vino. Ciò che iniziò 70 anni fa come esame per il commercio del vino nel Regno Unito è ora un titolo riconosciuto a livello globale detenuto collettivamente da una famiglia mondiale di Masters of Wine.
Che cosa fa esattame un Master of Wine? Intanto, ha studiato e degustato moltissimo, vini da tutto il mondo, quindi ha competenze enologiche consolidate, ma è anche una figura professionale con una conoscenza profonda di tutti gli altri aspetti del mondo del vino internazionale, con un focus su competenze commerciali e di marketing. Deve comprendere i modelli di consumo di tutto il mondo per essere poi in grado di orientare i consumatori ma soprattutto gli altri professionisti del mondo del vino. Promuove la cultura ma anche l’economia del settore, e contribuisce in modo positivo alla vita di tutta l’industria enoica, aumentando il valore dell’intera filiera. Orientando le scelte a livello internazionale, può essere un grande driver per il consolidamento dei nostri vini nel mondo.
Così commenta la notizia il nuovo MW: «Essere Master of Wine non vuol dire solo saper degustare un vino, riconoscerne la provenienza, essere bravi comunicatori. Il Master of Wine è un percorso che, una volta terminato, porta a pensare al vino in termini diversi come il suo futuro stilistico, economico, sociale e produttivo. Il vino è mezzo di dialogo con i viticoltori, con le reti vendita e con gli imprenditori. Il vino è capacità di ascolto ed è una materia che richiede tempo, dedizione e tanto studio, sia teorico che sul campo. Per queste ragioni ho scelto e inseguito la strada dell’Institute of Masters of Wine». La tesi finale presentata per avere la conferma è molto locale, e dà il polso della territorialità e del legame con il territorio del candidato: “Pergola and VSP [Vertical Shoot Positioning] in Valpolicella: how labour demand and current challenges impact training system choices: “Il confronto tra forme di allevamento, come VSP e Pergola, diventerà un tema sempre più attuale considerato il cambio climatico e la scarsità di manodopera”.
Dopo aver superato l’esame, i Masters of Wine sono tenuti a firmare un codice di condotta, prima di potersi fregiare del titolo di Master of Wine, e utilizzare le iniziali “MW”. Il codice di condotta richiede ai Masters of Wine di agire con onestà e integrità, e di utilizzare ogni opportunità per condividere la propria conoscenza del vino con gli altri. Solo 450 persone sono diventate Masters of Wine da quando ha avuto luogo il primo esame, nel 1953, e oggi l’Institute of Masters of Wine rappresenta l’ambizione più alta per i professionisti del vino di tutto il mondo.
I nostri complimenti a Lonardi, che è stato tra i protagonisti dell’ultima tavola spigolosa sul vino che abbiamo organizzato al Centro Brera, durante la quale le parole del MW sono state preziosi spunti di riflessione su questo universo e sulla necessità di trovare nuove forze, nuovi entusiasmi e nuovi giovani da far appassionare al settore.
Se impiegare i giovani nelle imprese è determinante per svecchiare il settore, lo è anche ascoltarli quando sono dall’altra parte, quando sono i consumatori. Lo ha rimarcato Andrea Lonardi: «Dobbiamo essere pronti a innovare, chiedere cosa vogliono bere, quanto, quando, perché». Bisogna prestare attenzione ai nuovi trend enologici, che, come sottolinea, vedono Londra come luogo di elezione. Lì nasce per lui il «vino giovane». Parla dei «frutty, crunchy, summer time red wines», bevibili anche a basse temperature e che per le condizioni di ambiente, suolo, clima che richiedono potrebbero essere replicati anche qui in Italia, in alcune zone del Piemonte e nell’asse Verona-Bolzano. Non sta cambiando però soltanto lo stile dei vini, ma anche l’occasione correlata per cui sono pensati: non più come parte del pasto quotidiano, ma dell’aperitivo. Durante questi non vedremo probabilmente più nemmeno i «giramenti di calici», pratica percepita dai giovani bevitori ormai vecchia, «da boomer» oseremo dire. Ciò che più Lonardi invita a fare però, è considerare e prenderne consapevolezza che «Il vino qualitativo non può esimersi dal pensare che sarà bevuto in un altro modo». La strategia è quella di «essere camaleontici, non perché il mercato lo impone, ma per quelli che sono i nostri valori e in base a quelli esprimerli nel miglior modo possibile». Infine, invita a ricordare il problema più grande, corrispondente allo stesso tempo alla soluzione: le persone. Pensare che coloro che lavorano in campo agricolo debbano avere uno stipendio adeguato. Creare un luogo da cui possano ricavare un sostentamento economico per loro e le loro famiglie. Perché, come afferma Lonardi in chiusura del dibattito: «Se non ci rendiamo conto che dobbiamo coltivare e pagare abbastanza le persone che lavorano in vigna e in cantina, questo settore è destinato a scomparire».