Nell’intervista pre-ferragostana per il Corriere della Sera il ministro Carlo Nordio, garantendo che sarebbe stato rispettato il cronoprogramma del Governo per le riforme sulla giustizia, aveva affermato enigmaticamente che la prescrizione sarebbe stata riportata «nell’ambito del diritto sostanziale, come causa di estinzione del reato e non di improcedibilità: soluzione, quella della riforma della ministra Cartabia, che ha creato enormi difficoltà applicative».
Il che non significa nulla rispetto al problema del cosiddetto “fine processo mai”. Può significare allungare i termini di prescrizione o ridurli o determinarli secondo variabili più o meno creative e fantasiose.
Di grande fantasia sembra appunto essere l’ipotesi che sta insistentemente circolando, rivelata a Ferragosto da Repubblica, che prevederebbe di stabilire la decorrenza della prescrizione non dalla commissione del reato per cui si procede, ma dalla sua scoperta.
Su questa ipotesi si concluderebbe il grande compromesso tra il ministro e i pm, con il sostegno di via Arenula a una proposta da sempre sollecitata, ricordava proprio Milella su Repubblica, «dai magistrati e da una toga come Pier Camillo Davigo, convinti che la moria dei processi sia proprio determinata dal fatto che la prescrizione parte troppo presto, quando il reato viene commesso, e non quando viene scoperto, soprattutto per i crimini dei colletti bianchi».
Il fatto che da Via Arenula nessuno abbia smentito questa ipotesi ha persuaso tutti che non si tratti una boutade giornalistica, ha preoccupato i parlamentari forzisti che si sono dichiarati indisponibili a sostenerla e ha suscitato la reazione dell’Unione delle Camere Penali, il cui presidente Giandomenico Caiazza ha definito questa soluzione «un obbrobrio» per cui «viene meno il senso stesso dell’istituto della prescrizione, legato al progressivo venir meno, con il trascorrere del tempo, dell’interesse punitivo dello Stato».
La cosa curiosa è che sulla grande stampa praticamente nessuno ha notato come questa ipotesi non sia affatto un compromesso diabolico e obbligato, che il ministro dovrebbe stringere con l’Anm o con le procure per guadagnarne il favore, ma sia tutta farina del suo sacco e risalga al tempo in cui il suo mandolinismo pseudo-garantista suscitava entusiasmi di pubblico e di critica in quel coté intellettuale che si era ingenuamente intestardito a invocarlo Messia del diritto penale liberale.
Nel 2018, durante la stagione gialloverde, della cui componente verde Nordio aveva un giudizio molto amichevole e indulgente, prima che il Governo Conte-Salvini-Di Maio approvasse il Parlamento la legge “Spazzacorrotti” con l’abrogazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, il già pensionato e non ancora ministro ex pm veneto propose esattamente questa exit strategy. Lo disse a chiare lettere: la prescrizione è «la garanzia di una ragionevole durata del processo» e «va mantenuta. È vero però che alcuni reati si scoprono sempre anni dopo la loro commissione, pensiamo ai falsi in bilancio o alle frodi fiscali, e quindi si sono già mangiati metà del tempo di prescrizione. Il compromesso giusto sarebbe far decorre il termine della prescrizione non dal momento della commissione del reato, ma da quello della scoperta del suo autore, e dalla iscrizione nel registro degli indagati». Davigo non avrebbe saputo dire meglio.
Fortuna che Dj Fofò non gli ha dato retta, scegliendo la strada del “processo infinito” e dando alla ministra Cartabia, nei limiti delle compatibilità politiche in cui era costretta, la possibilità di mettere un termine alla pretesa punitiva dello Stato, e non quella del “processo indeterminato”, in cui qualunque pm potrebbe datare il reato per cui pensa di procedere in base a un arbitrario giudizio sui termini della sua emersione e conoscibilità.
Per severo che possa essere il giudizio sul lodo Cartabia non vi è paragone, né di razionalità, né di decenza, tra un sistema in cui comunque si sa quando (troppo tardi) i termini di prescrizione scadono rispetto a uno che non consente neppure di prevedere quando inizino.
Anche questo episodio, come tutti quelli che si sono succeduti dall’inizio della legislatura, confermano che sarebbe meglio lasciarsi alle spalle il wishfull thinking del “ministro garantista” e riconoscere a Nordio il ruolo che gli spetta di arbitro pro tempore dei destini e delle miserie del bipopulismo penale e della giustizia a uso e consumo dei pm.