Chissà se l’economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, quando ha coniato il termine Bric – senza il Sudafrica – nel 2001, già immaginava uno scenario geopolitico così fluido e imprevedibile. Di sicuro, sosteneva che entro il 2050 le quattro economie (Brasile, Russia, India e Cina) avrebbero dominato l’economia globale. Più di vent’anni dopo, la fotografia restituisce un panorama diverso: il rigurgito imperialista di Mosca e la crisi del rublo, la crescita cinese che mostra segni di cedimento, la solida ascesa indiana che minaccia anche Pechino, l’ambigua postura internazionale e le contraddizioni del Brasile. Come ha scritto il New York Times, mai come stavolta i fari erano tutti puntati sul vertice Brics: un evento negli anni colpevolmente trascurato dalle élite occidentali, ora trasformatosi in nodo dirimente degli affari globali.
Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica sono state per anni tra le economie emergenti in maggiore crescita, grazie al basso costo del lavoro, alla demografia favorevole e alle abbondanti risorse naturali in un contesto di boom globale delle materie prime. Ora però le potenze sembrano fare un passo in avanti, per costruire una nuova agenda globale che possa mettere in discussione il primato statunitense: un piano che parte dalla de-dollarizzazione per arrivare a conquistare il Sud Globale.
Decine di Paesi, più o meno rilevanti sullo scacchiere mondiale, hanno fatto richiesta di adesione al gruppo, ma soltanto in sei faranno il loro ingresso nel gruppo: tra questi c’è un nemico dichiarato del blocco occidentale, come l’Iran, ma anche capitali con una strategia più opportunistica. Si uniranno infatti anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che vedono nei Brics un veicolo per ottenere un ruolo più importante all’interno degli organismi globali. L’Etiopia è invece attratta dall’impegno del blocco per delle riforme alle Nazioni Unite che darebbero al continente africano più voce in capitolo. Altre nazioni, come Argentina o Egitto, potrebbero desiderare sostegno economico o cambiamenti in organismi come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale.
La tesi di Goldman Sachs non prevedeva che i cinque Paesi Brics potessero costituire un’alleanza politica o addirittura un’associazione commerciale: tuttora, in effetti, non sono un’organizzazione multilaterale formale come le Nazioni Unite, la Banca Mondiale o l’Opec. L’impressione però è che si sia andati oltre la nascita di un blocco economico, con tutte le conseguenze del caso: i Brics oggi sono percepiti come un’alternativa agli organismi globali, considerati dominati dalle tradizionali potenze occidentali. L’allargamento a nuovi membri e il dominio del dollaro sono stati i punti principali nell’agenda del forum, che ha visto tra le altre cose l’assenza di Vladimir Putin, collegatosi a distanza per scongiurare il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra in Ucraina.
Per contrastare il primato della moneta statunitense, il gruppo cercherà di incrementare la raccolta di fondi e prestiti in valuta locale all’interno della New Development Bank, la banca Brics. «L’uso delle valute locali aiuterà a ridurre l’impatto delle fluttuazioni dei cambi», ha dichiarato il ministro delle Finanze sudafricano Enoch Godongwana. In questi mesi era stata addirittura ipotizzata la nascita di una valuta comune Brics.
Per ora il progetto di una nuova moneta sembra difficile da realizzare. Ma un aspetto molto più interessante riguarda i prestiti erogati dalla banca Brics: per distinguersi dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, l’istituto non porrà condizioni politiche sui prestiti. «Ripudiamo qualsiasi tipo di condizionalità», ha dichiarato Dilma Rousseff, ex leader del Brasile ora a capo della banca. «Spesso un prestito viene concesso a condizione che vengano attuate determinate politiche. Noi non lo facciamo. Rispettiamo le scelte di ogni Paese». Un altro attacco al modus operandi occidentale.
La sfida nei confronti degli Stati Uniti e delle istituzioni mondiali sembra lanciata, soprattutto dalla Cina: alla vigilia del summit, Pechino non ha nascosto la sua rivalità con Washington e il mondo libero. Il presidente Xi Jinping vuole trasformare il blocco in un rivale a tutti gli effetti del G7, quasi a voler creare il suo personale contrappeso all’assemblea occidentale. Ma in vista del vertice, l’India aveva fatto trapelare il suo dissenso: bisognerà verificare ora se i Brics saranno un club non allineato e incentrato sugli interessi economici o una forza politica capace di sfidare apertamente l’Occidente.
Pechino ha visto di buon occhio l’allargamento del blocco, perché ha attirato un gruppo eterogeneo di potenziali candidati con una cosa in comune: il desiderio di livellare un campo da gioco globale che considerano truccato a loro sfavore. Giocando su una diffusa insoddisfazione per l’attuale ordine mondiale, l’impegno dei Brics verso il Sud Globale ha raccolto consensi, nonostante la scarsità di risultati concreti. «Vogliamo esportare prodotti finiti, non roccia e sabbia»: ha detto ad esempio il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, chiedendo che la lavorazione di materie prime critiche avvenga in Africa. I Paesi in via di sviluppo sono sempre più determinati a stravolgere le catene del valore globali e partner come la Cina offrono risposte più rapide – non necessariamente migliori – dell’Europa.
Non tutto è oro ciò che luccica e i patemi d’animo sono molteplici per Xi: pur ospitando circa il quaranta percento della popolazione mondiale e un quarto del Pil globale, le ambizioni dei Brics sono state a lungo ostacolate dalle divisioni interne e dalla mancanza di una visione unitaria. Le sue economie, un tempo in forte espansione, in particolare la Cina, stanno rallentando. Il membro fondatore, la Russia, sta affrontando l’isolamento a causa della guerra in Ucraina. Il risultato più concreto del blocco, la New Development Bank, ha visto il suo già lento ritmo di prestiti ulteriormente ostacolato dalle sanzioni contro Mosca.
L’economista Alan Beattie ha osservato che i Brics potrebbero avere molti più problemi del G7: «Si tratta di un gruppo notoriamente diviso dal punto di vista geopolitico e la rivalità strategica tra India e Cina lo indebolisce come forum commerciale. L’Unione europea (le cui tre maggiori economie sono membri del G7) e gli Stati Uniti, invece, nonostante i diversi approcci alla privacy dei dati, hanno lavorato diligentemente per collegare le loro economie digitali attraverso accordi di condivisione dei dati. Per contro, nel 2020 l’India ha vietato unilateralmente cinquantanove app cinesi, tra cui TikTok e WeChat, dichiarandole una minaccia per la sicurezza».
L’aumento dei membri potrebbe però conferire ai Brics e al loro messaggio di riforma globale un maggiore peso. Con la Cina che spinge per un mondo bipolare, in cui Washington e Pechino si danno battaglia sui vari dossier, l’idea che hanno le piccole e medie potenze sembra diversa: molti Paesi puntano su un mondo multipolare, svincolato da logiche ferree di appartenenza. Uno scenario che il Financial Times ha definito «mondo à la carte»: se il momento post-guerra fredda dell’America come unica superpotenza si sta esaurendo, anche la vecchia era in cui i Paesi dovevano scegliere da un menù di alleanze a prezzo fisso si sta trasformando in un ordine più fluido.
Lo stallo tra America e Cina ha inaugurato una nuova era di opportunità per i Paesi di tutto il mondo, in cui nuove potenze si fanno largo per tutelare i propri interessi: è il caso dei Paesi del Golfo, che stanno stringendo nuove alleanze in Asia e ridefinendo le loro relazioni con gli Stati Uniti. I Brics sono avvisati e l’Occidente pure.