Quali sono le critiche che vengono solitamente rivolte al capitalismo? Mantiene povere alcune aree del mondo, crea disuguaglianze, distrugge l’ambiente, produce continue crisi finanziarie, avvantaggia solo i ricchi che dettano l’agenda politica, favorisce la nascita di monopoli, è guidato solamente dall’avidità e dalla ricerca del profitto, ci spinge a un consumismo sfrenato. In otto articoli, pubblicati a cadenza settimanale su Linkiesta, Rainer Zitelmann prova a rispondere a tali critiche, basandosi sui contenuti del suo recente libro, Elogio del capitalismo (IBL Libri, 2023).
Gli anticapitalisti, da quando esistono, hanno sempre previsto una crisi determinante che avrebbe portato al crollo finale e irreversibile del capitalismo. Karl Marx era convinto di aver scoperto delle “leggi” economiche che inevitabilmente avrebbero causato il crollo del capitalismo, come ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto oppure l’impoverimento del proletariato.
Per gli anticapitalisti le crisi economiche sono sempre state, soprattutto, una fonte di speranza di un possibile crollo su sé stesso del sistema capitalista. Le speranze nutrite, sfortunatamente per loro, sono state di continuo disattese. Sotto tanti punti di vista, gli anticapitalisti ricordano una setta apocalittica, intenta ad annunciare nuove date per la fine del mondo, nonostante le loro profezie non si avverino mai.
Durante la crisi finanziaria del 2008 gli anticapitalisti erano convinti che fosse giunta finalmente la fine del capitalismo. Dopo che, però, il capitalismo è sopravvissuto alla crisi, hanno dovuto attendere altro tempo e sperare che il crollo avvenisse in concomitanza della crisi da Coronavirus del 2020/21. All’inizio della pandemia gli intellettuali di sinistra hanno espresso il desiderio che in concomitanza con la situazione legata al contagio, si realizzasse ciò che non era avvenuto durante la crisi finanziaria del 2008, cioè una ristrutturazione della società e la sconfitta del capitalismo. William Davies, sociologo inglese, pubblicò un articolo sul Guardian intitolato: “L’ultima crisi globale non ha cambiato il mondo. Questa invece potrebbe farlo”.
Le crisi fanno parte del capitalismo e anche se gli effetti a breve termine creano problemi alle imprese e ai loro lavoratori, hanno un effetto positivo a medio-lungo termine. Si tratta di un processo che è stato definito dall’economista austriaco, Joseph Schumpeter, di «distruzione creatrice».
Quando si mettono in mezzo i politici, però, le crisi tendono a peggiorare e a prolungarsi. L’economista statunitense Thomas J. DiLorenzo ha paragonato l’approccio del governo americano sotto la presidenza di Martin Van Buren, che ha fatto i conti con la depressione del 1837, con la risposta del presidente Franklin D. Roosevelt alla Grande depressione del 1929. Van Buren riuscì subito a porre fine alla crisi, grazie a un atteggiamento di laissez-fare e all’aver resistito alle proposte che esigevano un’azione diretta del governo e un approccio interventista. Invece, Franklin D. Roosevelt lanciò il “New Deal”, che si affidava a una serie di programmi pubblici e perseguiva una politica anticapitalista e interventista. Il mito diffuso dagli anticapitalisti, secondo il quale il “New Deal” ha messo fine alla crisi, è sbagliato, perché in realtà la crisi è stata prolungata dalla politica di Roosevelt. La disoccupazione, che si aggirava attorno al 3,2 per cento nel 1929, è cresciuta fino al 14,6 per cento nel 1940. Il tasso medio di disoccupazione è rimasto pressoché stabile al 17,7 per cecnto nella fascia temporale compresa tra il 1933 al 1940. Il Pil pro capite negli Stati Uniti era di 857 dollari nel 1929 e undici anni dopo ha subito un aumento solo di cinquantanove dollari. La spesa per i consumi personali, che ammontava a 78,9 miliardi di dollari nel 1929, è scesa nel 1940 a 71,9 miliardi.
Invece, per quanto riguarda la crisi finanziaria del 2008? I politici e i media davano la colpa alla “deregolamentazione” dei mercati finanziari. Nonostante ciò, persino gli economisti inglesi Paul Collier e John Kay, coloro che avevano affermato erroneamente che il “mercato selvaggio” ha iniziato a dominare la politica economica negli ultimi decenni, hanno ammesso: «Chi incolpa la deregolamentazione come causa della crisi finanziaria ignora che già nel 2008, come oggi, si è assistito ad una regolamentazione finanziaria senza precedenti, in cui lo Stato è intervenuto in modo sempre più attivo, ma, allo stesso tempo, sempre meno efficace».
In nessun altro ambito ci sono così pochi principi economici di libero mercato come in quello finanziario. Oltretutto, nessun altro settore è regolamentato così pesantemente e controllato dallo Stato, eccetto, forse, il settore dell’industria sanitaria. Il fatto che proprio queste due aree economiche pesantemente regolamentate dallo Stato siano anche le più instabili, dovrebbe far riflettere gli anticapitalisti. Naturalmente, entrambi i settori necessitano di regolamentazioni. Ma lo slogan «serve più regolamentazione» è palesemente sbagliato.
Molte delle crisi che si sono verificate negli ultimi centovent’anni sono state innescate, o almeno aggravate e prolungate, dall’interventismo populista dei leader politici.