«Chi ti credi di essere?». All’inizio questa domanda mi è stata rivolta sotto forma di accusa, e cioè del rimprovero da parte di un adulto perché mi ero espressa come se avessi qualcosa da dire. La domanda su chi sono o, meglio, su chi penso di essere, mi è stata posta le prime volte da qualcuno che cercava di dimostrare che, chiunque pensassi di essere, sicuramente mi sbagliavo. Il rimprovero di solito arrivava come reazione al mio “rispondere” – e cioè al modo in cui una persona giovane metteva in discussione ciò che le autorità dicevano, voleva sapere da che cosa derivasse loro la libertà di dire quelle cose e chiedeva se per caso alcune di quelle cose che le autorità dicevano non scaturissero solo dal loro senso di superiorità e da niente altro, come sembrava.
Per molto tempo non sono stata in grado di pormi la domanda «Chi sono io?» senza che quell’altra voce, scettica e punitiva, si sovrapponesse alla mia, facendole eco. O forse la mia voce era così aggrovigliata con quell’altra da non riuscire più a distinguerle. Ma capii che anche la persona che era dietro a quella voce stava imponendo un confronto, affermando di fatto che c’erano alcuni che si meritavano di parlare impunemente quanto volevano, ma che io invece non lo ero. La domanda «Chi ti credi di essere?» significava in realtà «Che diritto hai di parlare in quel modo a me, che sono un adulto e sono cioè l’unica persona qui intorno che ha il diritto di essere qualcuno?».
Per certi versi, i ragazzi, sono dei teorici sociali. Così, dopo che ebbi capito che si stava istituendo un confronto, iniziai a teorizzare che c’era una classe di persone che aveva il diritto di pensare di essere qualcosa e un altro gruppo di persone che si sbagliava nel presumere di essere nella stessa condizione. L’adulto che aveva posto quella domanda non stava facendo un’indagine, ma stava sventrando la mia sensazione di essere una persona con il diritto di parlare e di mettere in discussione le cose. La domanda non presupponeva una risposta. Era un modo per mettermi a tacere.
Ho fatto studi umanistici e alla fine ho capito che quella domanda non era un esempio di indagine aperta e che le domande possono avere altri obiettivi e non solo quello di soffocare ogni altro interrogativo. Ma, per quanto fossi diventata consapevole, quel quesito rimaneva lì. Chi mi credevo di essere? Non sono mai stata in grado di rispondere, e forse non per colpa mia.
Visto che in un primo momento questa domanda ci viene posta come un’accusa o come una forma di autocensura, in seguito, quando ci viene posta un’altra volta, la faccenda diventa confusa. Chi sta parlando? Chi sta ponendo questa domanda? Lo sappiamo? Possiamo saperlo? Stranamente, poiché le mie domande venivano prese come delle affermazioni su ciò che pensavo di poter essere, si poteva apparentemente scorgere qualcosa di me nella domanda stessa.
Forse esistevo in una forma interrogativa? Ma, se la domanda era ritenuta illegittima, questo che cosa diceva di me? Era come se io fossi qualsiasi cosa emergesse dalle domande che ponevo. Domando, quindi sono – una variante di Cartesio. Forse i miei genitori, gli insegnanti od occasionalmente qualche rabbino pensavano che, con le mie affermazioni, sfidassi il loro stesso diritto di parola. Per questo motivo, reprimevano il mio. Ma credo che a indurli a zittirmi sia stata la loro resistenza nei confronti dell’uguaglianza. Oppure una profonda paura di critiche devastanti.
Iniziai a considerare l’infanzia non solo come un problema di uguaglianza sociale, ma anche come una lotta per la libertà. Tuttavia, se le mie domande dimostravano la mia esistenza, forse quegli adulti avevano compreso correttamente qualcosa. Il formulare una domanda mi aveva liberato momentaneamente da quella che mi sembrava una stretta autoritaria alla gola. Tuttavia, non ero ancora in grado di rispondere alla domanda su chi pensavo di poter essere senza ingaggiare una potente lotta per contrastare la forza che avrebbe annullato il mio stesso diritto di essere alcunché.
Perfino adesso, guardandomi indietro, non lo so ancora. Ero io che pensavo di non avere il diritto di essere o erano gli altri a pensarlo? Ero io che pensavo che non avrei dovuto affermare quel diritto in forma interrogativa o erano gli altri a pensarlo? Ero io che avevo bisogno di sapere che, chiunque io fossi, non avrei mai potuto essere uguale a loro o erano loro che avevano bisogno di saperlo? Questa domanda rimane aperta, mostrandoci i pericoli e le speranze dell’essere sociali fino al midollo.
Nelle classi di oggi, “rispondere” agli adulti è diventata la norma. Se nessuno sfida l’autorità, la classe ha fallito. È importante mantenere aperte le domande; se vengono chiuse troppo in fretta, si tratta sicuramente di un altro tipo di fallimento, poiché il domandare è solo uno dei modi in cui i giovani lottano per esistere, uguali e liberi.
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