Il materiale è politicoCome il design è stato (e può essere) agente di emancipazione sociale

Nel suo libro, edito da Meltemi, Loredana La Fortuna spiega, attraverso la storia della cucina e degli elettrodomestici, come lo stile degli oggetti, se ideato secondo ideali di democrazia e uguaglianza, può contribuire all'evoluzione dei diritti civili

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Se invece di chiederci se è ancora possibile perseguire un design “progressista”, non sia invece il caso di chiederci se ha ancora senso pensare al progresso semplicemente come al miglioramento delle condizioni materiali. E se l’obiettivo politico a cui tendere fosse invece diverso?

Proprio al Bauhaus, durante gli anni Venti, Walter Gropius iniziò alcuni studi sulla sequenzialità dei lavori svolti in cucina al fine di individuare la disposizione più razionale di apparecchi, piani e mobili contenitori e a Marcel Breuer si deve la progettazione, nel 1926, della prima cucina modulare. La storia del design della cucina, secondo me, è una storia particolarmente significativa per ragionare sui risvolti sociali e politici del design, proprio perché la cucina per tanto tempo è stato uno spazio di condizionamento e di discriminazione, il luogo della servitù, il luogo delle donne, il luogo “di servizio”. Il processo di razionalizzazione della cucina, perciò, è stato una di quelle operazioni di design in cui gli oggetti hanno fatto politica e messo in atto istanze culturali e sociali.

Alla prima esposizione del Bauhaus nel 1923, viene presentato un modello di abitazione in cui la cucina per la prima volta è stata progettata secondo i criteri relativi alla razionalizzazione del lavoro domestico. Lo studio è opera di una donna, Benita Otte67. Tra tutte le sperimentazioni europee del periodo, però, la più riuscita e anche la più famosa, è la cosiddetta “cucina di Francoforte”, progettata anche questa da una donna, Margarete Schütte-Lihotzy. […]

La cucina di Francoforte non è più separata dalla sala da pranzo ed è invece collegata al resto dell’abitazione da una parete scorrevole che permette l’interazione tra i diversi membri della famiglia, e perciò riflette, o forse più che altro auspica, l’affermarsi di un nuovo modello familiare. “La trasformazione del focolare domestico in organizzazione spazio-funzione” in base ai nuovi criteri del design è forse l’espressione più concreta di una nuova consapevolezza femminile. All’inizio del Novecento le donne iniziano a comprendere che la loro liberazione deve passare prima di tutto attraverso “l’affrancamento dalle servitù domestiche”. Non ci si poteva certo esimere dai compiti che la società imponeva, ma si poteva tentare di semplificare le attività onerose e ripetitive, attraverso l’uso di apparecchi “di servizio”, e si poteva inoltre provare a velocizzare i lavori domestici, anche grazie ad una razionalizzazione degli spazi, in modo da poter ricavare più tempo libero da dedicare ad altro. I “manomestici” attuano questa liberazione. Per lo più opera di sconosciuti inventori, questi oggetti di design consistevano in piccole invenzioni e congegni capaci di meccanicizzare e rendere più veloci i movimenti della mano. Di fatto, si tratta degli antenati di quelli che, con l’avvento dell’elettricità, saranno gli “elettrodomestici”, veri protagonisti della rivoluzione in cucina. Mia nonna possedeva uno sbattitore a manovella con dei manici di legno verde. Ne era particolarmente orgogliosa e io non ho mai osato dirle che con una frusta elettrica avrebbe impiegato la metà del tempo. […]

Sono gli oggetti questa volta a introdurre un discorso politico e non il contrario. Entro gli anni Trenta, in America, quasi tutti gli elettrodomestici oggi in uso fanno la loro comparsa e gradualmente iniziano ad assumere fisionomie sempre più riconoscibili e autonome grazie anche alla pubblicità e al lavoro dell’industrial design che ne studia e ne codifica la forma, l’ergonomia e i colori. La vita della donna, grazie al progresso, sembra a questo punto incredibilmente semplificata, liberata dal peso dei lavori di casa ormai delegati a delle macchine.

Eppure nel 1965 Betty Friedan parla per la prima volta del “problema senza nome”, nel suo libro La mistica della femminilità. Il problema che nessuno valutava all’interno della società americana, secondo la psicologa, è l’isolamento che affliggeva molte casalinghe, relegate in un ciclo interminabile di cura dei figli e lavoro domestico. La questione apparentemente inesistente è quella tristezza e inutilità della condizione femminile che invece lo scrittore Michael Cunningham meravigliosamente racconta attraverso il personaggio della signora Brown in Le ore:

Si chiede, mentre spinge un carrello attraverso il supermercato o si fa pettinare i capelli, se tutte le altre donne non stiano pensando, a un certo livello o a un altro, la medesima cosa: ecco lo spirito brillante, la donna dei dolori, la donna delle gioie trascendenti, che preferirebbe essere altrove, che ha acconsentito a sbrigare compiti semplici ed essenzialmente sciocchi, esaminare i pomodori, sedere sotto un casco asciugacapelli, perché questa è la sua nuova arte, questo è il suo dovere.

Secondo l’analisi del sociologo Anthony Giddens, a partire dall’industrializzazione, la casa si trasforma sempre più da luogo di produzione collettiva a sede di consumo. A questa divisione tra casa e luogo di lavoro, segue quella tra lavoro domestico, tipicamente femminile, e lavoro extradomestico, propriamente maschile, e su tale divisione si fonda una rigida e non negoziabile organizzazione familiare in cui alle donne spetta la cura della casa e dei figli, mentre agli uomini è affidato il compito di mantenere la famiglia guadagnando uno stipendio. Il contesto familiare nella moderna società capitalistica americana, sebbene attrezzato con cucine pratiche e funzionali e lucenti elettrodomestici, diviene dunque per le donne un luogo di sfruttamento, di solitudine e di profonda disuguaglianza.

Betty Friedan ha analizzato come con la fine della seconda guerra mondiale le donne che avevano sostituito gli uomini nei lavori extradomestici fossero state costrette a ritornare alle loro occupazioni tradizionali e alla cura della casa, del marito e dei figli. Questa costrizione era stata resa apparentemente gradevole con la comparsa degli elettrodomestici, strumenti sempre più moderni e tecnologici che aiutavano la donna a eseguire al meglio i compiti che le erano stati assegnati. Per questo Friedan utilizza le espressioni: “happy housewife” e “mistica della femminilità”, per sottolineare la concezione secondo la quale la donna, privata dalle fatiche dei lavori domestici, poteva finalmente realizzare sé stessa godendosi appieno il proprio ruolo di “regina della casa”. La donna poteva quindi raggiungere la sua condizione esistenziale ideale soltanto attraverso un ruolo riproduttivo, abbandonando gli studi, il lavoro extradomestico e ogni ambizione personale e professionale con l’obiettivo unico di sposarsi e di costruire una famiglia.

In questo modello efficace ed efficiente il tempo si libera dalle faticose mansioni manuali, ma lascia spazio ad un tempo vuoto e inutile neanche lontanamente simile alla felicità. Perché in questo caso il progresso non coincide affatto con l’emancipazione. E il ruolo della donna resta sempre minoritario all’interno di una società che migliora tecnologicamente ma non ideologicamente. E allora, è doveroso chiedersi, gli oggetti di design, in questo caso, hanno davvero svolto un’azione politica? […]

Il design, come tutte le condizioni postmoderne, condivide quella “incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, ma può ugualmente muoversi in senso politico nell’azione del singolo, progetto dopo progetto, oggetto dopo oggetto, uso dopo uso, ai fini di un’evoluzione complessiva dei diritti civili, del rispetto delle alterità e delle identità. “Ognuno può suonare […] la nostra campana”. E forse non è un caso che Olivetti usi un aggettivo possessivo plurale, “la nostra” e non uno singolare. Non lo avevo notato fino ad ora.

La vicinanza con gli individui che compongono la società, con i contesti di vita, la capacità di infiltrare il quotidiano, di parlare un linguaggio che chiunque può intendere attribuisce al design una posizione privilegiata, che fa persistere, malgrado tutto, la fiducia in un potenziale d’azione. In fondo, la prospettiva di un impatto possibile – anche se minata dai dubbi, dalle domande, dagli scrupoli – riluce ostinata nelle differenti declinazioni del design.

Del resto, tra i venti oggetti che hanno definito il 2022, la rivista “Domus” ha individuato un paio di forbici, un oggetto di design anonimo, divenuto il simbolo globale della rivendicazione dei diritti delle donne iraniane nel paese mediorientale dove l’atto di tagliarsi i capelli è un atto di ribellione contro la repressione. Gli oggetti, allora, possono davvero fare politica se a pensarli, a costruirli, a usarli sono uomini animati da un sogno di democrazia, libertà e uguaglianza.


Tratto da “È una questione di design. Il senso degli oggetti nella cultura”, di Loredana La Fortuna, edito da Meltemi, 187 pagine, 15,20€. 

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