Si chiama Veronica Leoni, si legge Quira, ovvero la complessità del femminile contemporaneo, spiegata un abito alla volta. E, se si fa fatica a trovare paragoni letterari o cinematografici calzanti abbastanza per descriverla, è perché Leoni sfugge a qualunque stereotipia. Romana, ma con l’intonazione vocale di chi ha vissuto molti anni a Londra, scandisce le frasi con calma e, mentre si spiega, pare che in realtà si stia interrogando insieme a te, sul senso delle sue parole. La si incontra nel bar della Soho House a Roma, divanetti con vista San Lorenzo e Pastificio Cerere, e all’inizio la si scambia per qualcun altro che, dalle spalle, pareva avere la stessa capigliatura. «Il ciuffo c’era, dai», ironizza lei, riferendosi a quel taglio corto, con una ciocca di capelli sul davanti, pettinata ad hoc con maggiore volume, con le striature di colore più chiare, quasi grigie, che disegna una curva sulla fronte alta.
È minuta, con un completo maschile e una t-shirt, dall’apparenza decisa, ma già l’onomastica del suo brand, fondato nel 2021, tradisce un romanticismo che scivola furtivo attraverso le trame complesse dei suoi cappotti strutturati. «Quira viene da Quirina, mia nonna. Era una sarta, i rudimenti del mestiere me li ha insegnati lei, iniziando a ricamare i tovaglioli. Lo sapevo da allora che avrei fatto la stilista, era una vocazione, anche se poi non ho frequentato scuole di moda classiche: sono legata ad altri metodi, per essere diplomatica».
E la diplomazia è un’arte che Leoni esercita con un certo grado di scioltezza, annuendo educatamente quando ascolta qualcosa sulla quale non è d’accordo, o sulla quale invece, vorrebbe dire di più, ma sa che i vantaggi di “un bel tacer”, nelle giuste occasioni, superano di gran lunga quelli di prese di posizioni assolutiste. Un equilibrio che è visibile a occhio nudo nelle sue collezioni, composte di cappotti in lino dall’effetto stropicciato che sembrano abiti con maniche raglan, blazer con scollo a barca declinati su una lana maschile, trench in gabardine di cotone giapponese che si arricchiscono di un complesso doppio frontale, tanto da apparire due trench in uno, ma anche blazer sartoriali più classici, con bottoni in corno riciclati.
La capacità di trovare il giusto dosaggio degli ingredienti è anche frutto dell’esperienza: classe 1984, Leoni ha lasciato Roma dopo la laurea in Scienze della moda e del costume – «stavo studiando per l’esame di architettura, ero appena uscita dallo scientifico, e poi hanno lanciato questo corso, quindi mi sono decisa a provare» – per spostarsi a Londra dove ha militato in alcuni tra gli uffici stile più rilevanti, con due donne i cui nomi scatenano automaticamente, in chi li ascolta, nostalgici sospiri: Jil Sander e Phoebe Philo (da Céline). «Questo è un lavoro che in fondo si impara facendolo», spiega Leoni, come a giustificare l’autorevolezza che trasuda dal suo cv. «Con la laurea volevo completare un percorso di studi che fosse fatto di riferimenti e contenuti che andassero oltre la semplice creazione degli abiti. Contenuti che, oggi, formano le storie che racconto quando creo una collezione e che ti fanno venire in mente strane fantasie, animano la curiosità». Il metodo appreso negli anni non adombra però mai l’istinto, l’imprevedibilità di certe costruzioni, dei vestiti con cut-out a U ricavati dal gabardine usato di solito per i trench o delle camicie in popeline effetto seta con maxi fiocco da chiudere a seconda dell’umore.
«L’esperienza fa sì che i codici siano assorbiti, lasciando però spazio all’istinto», spiega Leoni. «So già quello che è corretto fare, senza sentire l’urgenza di definire il brand. D’altronde abbiamo la possibilità di cambiar pelle ogni sei mesi e, anche se Quira, a guardarla da fuori, sembra un progetto del tutto completo, siamo una realtà piccola e abbiamo l’elasticità per farle prendere forma in maniera organica. Certo, non nego che la prima collezione sia stata sfidante: avevo il timore che un dettaglio in più potesse distogliere l’attenzione dal progetto, volevo raccontare senza sviare. Poi mi sono resa conto che, anche come esseri umani, abbiamo un bisogno imprescindibile di leggerezza e volatilità». Elasticità, leggerezza, e poi, dall’altra parte, un terragno rigore, una praticità esercitata con metodo. Non le si vuole chiedere cosa abbia ereditato da chi, per non fare torto a un percorso indipendente, che rielabora le suggestioni e gli insegnamenti in maniera libera, ma le influenze di Sander e Philo sono più nella teoria che nell’esecuzione finale. «Jil Sander e Phoebe Philo sono due donne molto diverse, anche se oggi vengono spesso accostate», spiega Leoni.
«Jil ha lasciato il mondo della moda da diverso tempo (Veronica Leoni ha lavorato insieme alla fondatrice del brand, dove era a capo della maglieria, ndr) mentre permane ad oggi un’adorazione verso Phoebe Philo, e il suo lavoro da Céline. La cosa sulla quale rifletto spesso è che, nonostante la leggenda intorno a loro, si tratta di due donne che sono state rese grandi dal prodotto che hanno realizzato, mentre oggi, purtroppo, il prodotto non basta più. La sfida principale per me è comprendere che il successo non deriva tanto dal lavoro che fai, ma da qualcosa di indefinibile che deve venire prima e dopo la collezione. Questa è un’industria che si è totalmente modificata rispetto all’epoca nella quale loro operavano e io a realizzare un capo l’ho imparato da loro, quindi non so neanche se questo contemporaneo mi assomiglia così tanto».
E, in effetti, il chiacchiericcio incessante, i toni accesi, la ricerca della popolarità in una dimensione parallela, quella del web – nella speranza che si trasli anche nella vita reale – poco hanno a che fare con questa donna sofisticata, che gesticola poco ma compensa con frasi che sembrano cesellate, per quanto sono precise, eppure sempre morbide. «Sono una persona molto riservata che ricerca l’anonimato e questa battaglia per la rilevanza sui social è in effetti il mio cruccio quotidiano», confessa. «Il mio account Instagram privato è un piccolo divertissement, non certo un mezzo imprescindibile per il radicamento del mio successo e, anche se provassi a cambiare le cose, risulterei goffa. E non è forse sbagliato, pensare di dover necessariamente adeguarsi a un’impostazione, anche quando non fa parte di noi?».
E però questo non vuol dire che Veronica Leoni non sia capace di accettare le sfide, anche quando parlano un linguaggio stilistico diverso dal suo: d’altronde, dal 2018 al 2022 è stata direttrice creativa di 2 Moncler 1952, una delle emanazioni del progetto Genius di Moncler, nella sua forma originaria. «Moncler Genius è stato un progetto innovativo e precursore del filone delle collaborazioni, una strategia di marketing futuristica e stranamente italiana (ride, ndr): oggi è normale pensare che ogni brand abbia il suo “genius”. La collaborazione si è avviata quest’anno alla sua naturale conclusione, ma nel frattempo ho imparato moltissimo sui capi tecnici, di cui sapevo poco agli inizi. D’altronde, i riferimenti estetici e culturali che hai possono essere applicati anche a campi diversi e risultare comunque credibili. E pensare che quando Ruffini mi ha scelta, senza che io mi candidassi, gli ho esposto tutti i miei dubbi in merito. No, guardi, non penso di essere la persona giusta, gli dissi. Ma lui aveva già deciso. E alla fine, aveva ragione lui».
È una consapevolezza di sé e dei propri limiti – anche al netto del pericolo di stimarsi al ribasso – che suona molto femminile: si fatica a immaginare un omologo uomo di Leoni cercare di dissuadere un imprenditore volenteroso dall’assunzione in un brand di prima categoria. «La presenza di donne designer in Italia?», chiede Leoni con una risata che nasconde un velo di amarezza. «Io sono stata fortunata, il mio percorso è stato fino a oggi costellato di donne, e ciò mi riempie il cuore. Detto ciò, non so perché, esattamente, la cosa non funzioni: probabilmente viviamo in un patriarcato naturalizzato, nella moda, come in tanti altri campi lavorativi, e la formula di un brand non nasce con il designer, ma con l’ad che quel designer lo sceglie.
E anche gli amministratori delegati sono spesso uomini. Non è uno strano cortocircuito pensare che un uomo possa raccontare una donna meglio di quanto non possa fare una donna stessa? Per me è una lotta quotidiana ed è innegabile che questa problematica esista. Francesca Bellettini, l’ad di Saint Laurent, è una delle pochissime donne nel settore, ma è una dei manager più influenti e di successo che ci siano oggi. Forse la sua carriera stimabile potrebbe definire un cambio di passo, o almeno lo spero». Adesso, però, Leoni è più concentrata sul consolidamento del brand, sulla realizzazione delle prossime collezioni che sono «ogni volta un momento tragico e turbolento. Non succede mai che pensi “che bella collezione che ho realizzato”, vorrei buttar tutto e ricominciare daccapo, ma la sfida con me stessa mi porta a trovare un margine per il passo successivo, con l’obiettivo di liquefare le costruzioni, le armature e le sovrastrutture, e lasciar parlare i capi».
Sono sforzi che però non si traducono in un brand animato da un desiderio di compiacere a tutti i costi, né i compratori finali né la stampa, con presentazioni dislocate in zone geografiche non necessariamente contigue al resto degli eventi del calendario della moda. «C’è una linea sottile che demarca l’accessibile da ciò che non lo è: preferisco le presentazioni alla sfilata, perché mettere in fila i manichini, permettere a chi arriva di soffermarsi a guardarli, invece che farli intravedere per il tempo di una passerella, è un po’ come mettermi a nudo, lo trovo molto romantico. Non penso di voler essere “per pochi”, ma di certo preferisco essere per quelli giusti, quelli che stabiliscono un dialogo intimo con il brand». Un’intimità che oggi Leoni ha forse ritrovato con Roma, città natale e però costante orizzonte straniero.
«Qui ci sono nata, ma non ci ho mai lavorato. Dopo la laurea mi sono trasferita all’estero e, pur rimanendo nella mia vita privata, Roma non è mai stata parte di una routine. Il bello di questa città, oggi, è che è totalmente decontestualizzata dall’industria, non incontro nessuno che faccia il mio stesso lavoro. Ho molti amici che lavorano nel cinema, e mi coinvolgono nei loro mondi: vivo a Monteverde, che è una sorta di bolla autosufficiente da cui esco poco, e che si auto-alimenta rimanendo creativa. Per una come me che ricerca l’anonimato, la riservatezza, è in fondo una città straordinaria. Roma è il mio personale altrove».