Si alza il ventoPerché l’Italia dovrebbe investire nell’eolico offshore

È la migliore soluzione per garantire al nostro paese una produzione energetica continua e basso impatto ambientale. Tutte le forze politiche dovrebbero convergere, dando pochi e chiari segnali al mercato per permettere investimenti annuali e ad alto rischio

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Vi è un macigno che pesa sulle classi dirigenti europee e italiane, sui partiti: assicurare politiche in grado di portare al rispetto degli obiettivi dell’Unione europea, suddivisi per paesi membri, nel contrasto ai cambiamenti climatici. Obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra (di almeno il 55% entro il 2030 rispetto al 1990) fino a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Ciò che appare evidente dai vari monitoraggi in corso è che l’Italia è lontana dagli obiettivi di crescita sostenibile e, con l’attuale andamento e mix energetico, fallirà sia quelli intermedi 2030 e 2035 che quelli finali 2050.  

Nel frattempo qualcosa di diverso, strutturalmente diverso, sta accadendo: viviamo direttamente, sulla nostra pelle, a danno dei nostri territori, del nostro tessuto produttivo, di vite umane, gli effetti del cambiamento climatico. Se qualcuno si era illuso che lo stellone italico per qualche strano accidente ci avrebbe reso immuni da temperature tropicali, inondazioni o massicce grandinate, si è dovuto ricredere. La transizione ecologica, che è essenzialmente transizione energetica e, quindi, transizione del modello di produzione e di conseguenza transizione del vivere comune, non è un capriccio di qualche burocrate dell’Unione Europea, ma è una nostra esigenza impellente.  

È anche tempo di relazioni strette tra le dinamiche geopolitiche e le grandi scelte di politica energetica, dapprima rispetto alla necessità di ridurre la dipendenza dal gas russo e poi da quella di non costruire un mix energetico troppo dipendente dalla Cina, dalle sue materie prime, dalla sua componentistica, dalla sua produzione sporca (climalterante) di pannelli fotovoltaici. E i partiti italiani intanto sembrano poco consapevoli di giocarsi credibilità e consenso nell’indicare e/o attuare strade realmente perseguibili ed efficaci rispetto agli obiettivi, poco consapevoli della necessità di sganciarsi da approcci ideologici.  

Fonti rinnovabili, efficienza energetica (produrre di più con meno), nucleare, sequestro di CO2, cambiamento dei costumi del consumatore, idrogeno, elettrificazione di usi energetici, tassazione delle emissioni di CO2, incentivi alle produzioni green e disincentivi dei consumi fossili, collaborazione internazionale e tanto altro ancora. Nessuno di questi elementi da solo ma tutti insieme sono costitutivi della ricetta necessaria perché al 2050 si raggiunga l’obiettivo di arrivare a un modello di crescita economica e sociale con emissioni nette di CO2 pari a zero.   

Poiché l’individuazione della giusta ricetta non è, o non dovrebbe essere, tema ideologico ma valutazione, spesso difficile e incerta, di pro e contro e poiché l’obiettivo si raggiungerà, forse, solo nel 2050 (ma gli investimenti devono essere fatti nei prossimi dieci anni), è fondamentale avere una programmazione di lungo periodo che vada oltre le esigenze elettorali di questa legislatura e che dia agli operatori un quadro regolatorio chiaro e affidabile.  

Eolico a mare, è questa una tecnologia relativamente nuova che, nata nel nord Europa, dove condizioni di vento favorevole e basse profondità d’acqua hanno consentito lo sviluppo di progetti per un totale di circa 30GW, comincia a essere una parte importante dell’energy mix di Regno Unito, Germania, Danimarca, Olanda e Belgio. Oltre all’Europa del nord è già opzione centrale negli sviluppi delle fonti rinnovabili in Cina (!) ed è parte integrante della strategia di Joe Biden per la transizione statunitense.   

Fino a qualche anno fa la profondità d’acqua rappresentava un limite tecnologico: non si possono piantare sul fondale marino le fondazioni che sostengono le turbine se il fondale è a una profondità superiore a sessanta-settanta metri. Un bel problema per noi: al netto dell’alto Adriatico, dove però il vento non è un granché, le aree più ventose, essenzialmente nel sud Italia, hanno una profondità superiore.  Il limite però non è più tale; si sta affermando la tecnologia delle fondazioni galleggianti (floating) che, legate al fondale da ancore, permettono lo sviluppo di impianti eolici lontani dalla costa e a maggiori profondità.   

A differenza delle altre rinnovabili, il floating offshore wind ha qualche sostanziale vantaggio. Prima di tutto ambientale: a mare, gli impianti non occupano suolo destinabile ad altre utilizzazioni; lontani dalla costa, producono impatti visivi e acustici trascurabili; inoltre, creano ambienti favorevoli alla riproduzione della fauna marina. Si rivela ottimo anche per la produzione energetica: assenza di vincoli logistici e grandi disponibilità di aree consentono sviluppi di progetti di grandi dimensioni (cinquecento– milleMW e più) e pochi impianti generano grandi contributi in termini di volumi; il vento a mare è più forte e continuo (maggiore numero di ore di produzione all’anno), più prevedibile perché subisce meno interferenze ed è sinergico rispetto all’utilizzo del sole (più vento d’inverno e nelle ore notturne). Inoltre le filiere industriali italiane hanno qualità e capacità per posizionarsi e diventare produttori di componenti complesse come quelle richieste dallo sviluppo degli impianti floating offshore.  

A fronte di questi innegabili vantaggi, occorre tener presente che lo sviluppo dei progetti richiede tempi lunghi e investimenti massicci. Infatti, si arriverà alla produzione di energia elettrica per un periodo di venticinque-trent’anni, dopo sette-otto anni necessari per l’ingegnerizzazione del progetto e l’ottenimento dei permessi e successivi due-quattro anni di costruzione (costi associati a questa fase particolarmente impegnativi: anche al netto del recente aumento dei costi delle materie prime, per un progetto di 1GW è ragionevole stimare un costo tra tre e quattro miliardi di euro).  

Come può un qualsiasi operatore economico affrontare i rischi legati a un’impresa multimiliardaria, che si sviluppa nell’orizzonte di qualche decade, in assenza di una chiara strategia energetica di lungo periodo e di un quadro regolatorio affidabile e stabile?  

L’eolico offshore, quindi, ha potenzialità ma richiede anche investimenti e pianificazione, tutto con ordini di grandezza decisamente diversi rispetto alle altre fonti rinnovabili. Per questo, una delle domande centrali cui il decisore politico dovrebbe rispondere nel formulare la strategia energetica nazionale è: l’Italia può raggiungere l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di CO2 al 2050 senza dosi massicce di eolico a mare?   

La domanda, oltre che necessaria, è tempestiva perché alcuni provvedimenti importanti che determineranno l’indirizzo da prendere e daranno segnali chiari agli investitori sulla credibilità del nostro Paese nell’affrontare la transizione energetica sono in discussione in questi giorni e dovrebbero essere in cima all’agenda politica alla riapertura dei lavori. Il riferimento è al PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) e al cosiddetto decreto Aree idonee le cui bozze sono circolate nelle scorse settimane. Un primo difetto è che l’orizzonte temporale è il 2030; è assente quindi ogni indicazione circa le ambizioni che il Governo ha in merito a quale sarà l’energy mix al 2050. 

Limitandoci alle fonti rinnovabili, il PNIEC indica i seguenti obiettivi: per il solare passare da 22.5GW operanti al 2021 ad 80GW nel 2030 e per l’eolico, aggiungere circa 17GW agli 11GW installati fino al 2021; di questi, solo 2.1GW provenienti dall’offshore. In sostanza, al 2030 il Piano prevede che ci siano 131GW di capacità rinnovabili installate di cui ¾ fotovoltaici (bene di giorno e d’estate un po’ meno d’inverno). Capacità più o meno confermate dal decreto Aree idonee (in realtà ne sono previste 10GW in più), provvedimento in cui si determina quanto di queste capacità se ne deve far carico ogni regione e si dà loro il compito di individuare le aree in cui saranno realizzate.   

Dal 2015 al 2021 abbiamo realizzato in media circa 1GW di capacità rinnovabili all’anno. Grazie alle misure del Governo Draghi nel 2022 le capacità installate sono di fatto triplicate (3GW). Purtroppo, ciò non basta e anche di molto. Da qui al 2030 dovremmo realizzare quasi 9GW o 10GW all’anno per centrare gli obiettivi rispettivamente del PNIEC e del decreto Aree Idonee. Se confermassimo nei prossimi anni più o meno le capacità installate nel 2022, ne mancherebbero all’appello 30-40GW.  

Onestà consente però di rintracciare un primo segnale politico che anche l’eolico a mare, forse con un po’ di timidezza, si sta facendo strada: la bozza del decreto Aree Idonee permette alle regioni di utilizzare il quaranta per cento delle capacità sviluppate a mare per raggiungere gli obiettivi di capacità a loro assegnate. Questo passaggio è importante perché è la prima presa d’atto che l’eolico a mare è necessario (e perché forse c’è l’auspicio che si possa andare oltre i 2.1GW indicati al 2030 dal PNIEC). 

È però parziale; infatti, non si capisce perché solo il quaranta per cento delle capacità dell’offshore (che, ricordiamo, assicurano più ore di energia e quando quelle fotovoltaiche mancano) debbano essere contabilizzate. Poiché il decreto prevede che le regioni che realizzano più capacità rispetto ai target possano, tramite compensazioni, offrirne a quelle che non centrano gli obiettivi, sfruttare le favorevoli condizioni climatiche di Sicilia, Puglia, Sardegna e parzialmente Calabria, sarebbe un facile strumento per ottimizzare la realizzazione dei piani.    

Quindi, alla domanda su come l’Italia possa realizzare la transizione energetica, una prima risposta si può dare. Le rinnovabili a terra con ogni probabilità non sono sufficienti e, puntare solo su quelle, ci tiene lontano dalla meta. Certo, il nucleare – fonte di energia pulita in grado di azzerare o limitare la dipendenza dagli idrocarburi di Putin o di altri paesi “scomodi” e dai minerali (e componenti) cinesi – non può continuare a essere escluso a priori e l’Italia deve superare preconcetti ideologici e aprire un serio dibattito sul tema. Insieme al nucleare, se non vogliamo che anche oltre il 2030 il gas continui a rappresentare il quaranta per cento dell’energy mix nazionale, l’eolico a mare è la soluzione su cui tutte le forze politiche dovrebbero convergere, dando pochi e chiari segnali. 

In linea con la politica dell’Unione europea e come già fatto da moltissimi Paesi europei chiarire senza titubanze che l’eolico a mare è un’opzione centrale e strategica per la realizzazione della transizione energetica in Italia, indicando obiettivi di capacità da realizzare al 2050 nell’ordine di decine di GW. Per inciso, già oggi ci sono domande di allacciamento alla rete Terna per progetti offshore che ammontano a più di 100GW; rimarranno sulla carta in assenza di segnali dal fronte governativo. Lasciare l’indicazione di 2.1GW al 2030 come unico riferimento è un pessimo segnale per i potenziali investitori.  

Come richiesto dalle direttive europee, adattare al più presto il Piano di Gestione degli Spazi Marini in cui individuare aree che hanno vocazione per l’eolico a mare e, quindi, siano destinate a questi scopi (per esempio in Danimarca il trenta per cento delle aree marine è destinato all’offshore wind).  

Non rinviare ulteriormente il decreto FER 2. Si tratta di quel provvedimento che, per favorire soluzioni tecnologiche innovative come il floating offshore wind, mettono in competizione i vari progetti per accedere a strumenti contrattuali con cui si ottiene la garanzia del livello del prezzo di vendita. Si comprende come, per istituti di credito a cui si rivalgono gli operatori per ottenere finanziamenti ai loro progetti offshore, sia importante che il debitore possa contare sulla certezza del prezzo di vendita di energia elettrica. La storia del decreto FER 2 è una di quelle vicende che scoraggiano gli investitori e confermano i peggiori stereotipi: la sua approvazione e pubblicazione è annunciata da più di un anno e continuamente rinviata. Un pessimo segnale per chi guarda all’offshore wind in Italia come opportunità d’investimento. 

In considerazione del fatto che non vi è organizzazione scientifica internazionale che non concordi sulla necessità di aumentare la produzione di energia elettrica da nucleare per raggiungere l’obiettivo di decarbonizzazione entro il 2050, nel 2022, nel corso della segreteria Della Vedova, l’assemblea di +Europa ha approvato una mozione (Valerio Federico/Giulio Del Balzo) in cui ha indicato nucleare – anche quello attuale di terza generazione avanzata – ed eolico a mare tecnologie da considerare per un mix energetico capace di realizzare realmente la transizione energetica come previsto dagli obiettivi europei e globali 2050. E se il nucleare continua a essere ideologicamente osteggiato nel nostro Paese, questo non sembra accadere per il floating offshore wind. L’opportunità di sviluppo di decine di GW con questa tecnologia è un’occasione troppo importante in termini di sostenibile transizione energetica e opportunità di sviluppo per filiere industriali italiane.

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