Umanesimo e scienzaDa Viale Sarca a Bagnoli, un viaggio tra le trasformazioni del paesaggio industriale italiano

Giuseppe Lupo, nel suo ultimo libro edito da Marsilio, esamina i cambiamenti economici e culturali del Novecento nel nostro Paese, sottolineando l’importanza di considerare interpretazioni alternative alla modernità

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Se si percorre viale Sarca, a Milano, la strada che un tempo portava alla periferia delle grandi fabbriche, si vede la vecchia torre di raffreddamento della Pirelli ingabbiata dentro un’elegante struttura di vetro e metallo. È un monumento, non un rudere, una specie di celebrazione di un’epoca passata ma senza la retorica del ricordo, perché la luce naturale e quella dei lampioni, che giorno e notte filtra fra le impalcature, disegna sulle fiancate una composizione geometrica di ombre. Tutto ciò che le sta intorno – le pareti variopinte dei centri commerciali, i palazzi per uffici, i casermoni dei condomini, le carreggiate asfaltate, gli alberi – sembra che sia lì solo per ammirarne l’eleganza maestosa eppure non invadente, l’immagine razionale e inavvicinabile di una trasformazione epocale, di cui la torre, appunto, rappresenta l’ultimo baluardo. Viale Sarca può essere assunto a chiave di lettura del tempo che stiamo attraversando. È da settant’anni che il paesaggio continua a cambiare faccia: da periferia del dopoguerra a palcoscenico del postmoderno, con l’Università Bicocca e il Teatro degli Arcimboldi che hanno sostituito i capannoni delle officine, con i centri direzionali delle aziende multinazionali che hanno soppiantato i vecchi, romantici magazzini di mattoni rossi e i tetti a forma di sega.

L’esatto opposto è il panorama che si apre da sopra la collina di Posillipo, a Napoli, quando si arriva al culmine della salita e ci si affaccia dall’altra parte rispetto a quella del mare. Nessuno, arrivandoci, una volta superata la linea delle ville liberty, riuscirebbe a immaginare la spianata sottostante, che pare un deserto colorato dalla ruggine più che dall’erba incolta, un orizzonte dimenticato, da cui si innalzano i rottami di costruzioni metalliche, cilindri ammaccati, ponteggi abbandonati, attrezzi fuori uso. Da quelle parti è davvero volato l’Angelo della Storia che Walter Benjamin descrive nel suo Angelus Novus, il terribile e rassegnato testimone della tragedia che il progresso si porta in dote. La spianata fuligginosa di Bagnoli è ciò che rimane del grande stabilimento Ilva, il colosso siderurgico che ha smesso di produrre acciaio nei primi anni novanta ed è stato dismesso per lasciare spazio a qualcosa che, nei piani futuri, dovrebbe svolgere le funzioni di un museo a cielo aperto.

Il quartiere Bicocca, a Milano, e il quartiere Bagnoli, a Napoli, sono spazi densi di storia, un’umanità vi ha messo radici e ha creduto nella favola di un Novecento che desse lavoro e civiltà, benessere e speranza. Lo sviluppo tecnologico è stato più forte delle attese, ha lasciato su entrambi i segni del proprio passaggio, con un orientamento diverso: a Milano la vita continua a scorrere modificata da altre liturgie, a Napoli, invece, quell’immensa area ha l’aspetto di un cimitero dove non abita nemmeno più la memoria.

Potrebbe cominciare da questi due estremi un viaggio dentro un tempo abbastanza breve – cento anni o poco più, dalla fabbrica fordista alla produzione green – eppure assai più sconfinato di quanto non indichino gli anni trascorsi: un percorso che ha tutti i caratteri di una ricognizione nel Novecento, nelle sue promesse lusinghiere e nei suoi incubi distopici, un itinerario tra le catene di montaggio nelle officine, nelle mense, al fianco di operai e impiegati, dirigenti e imprenditori, perfino zigzagando tra gli oggetti che sono figli di una creatività artigianale tutta italiana e hanno nutrito, con la qualità del design, con l’essenziale bellezza, l’immaginario di un popolo destatosi dal torpore della civiltà contadina e proiettatosi a grandi falcate verso il miraggio dell’industrializzazione e della società di massa.

In un cammino a tappe c’è il racconto delle geografie dov’è stato forte l’urto dei processi economico-sociali e c’è nel contempo l’indagine sulle manifestazioni antropologiche che hanno connotato il rapporto tra gli uomini e le macchine, caratterizzato dal clima di diffidenza o di euforia che ha accompagnato il moltiplicarsi di oggetti fabbricati. Naturalmente non poteva mancare la ricostruzione dei sospetti ideologici che hanno alimentato le discussioni tanto nelle opere letterarie quanto nelle riviste aziendali, nelle pellicole cinematografiche come nei dipinti, tutti elementi che da sempre alimentano l’annosa questione dell’antico e del moderno, compreso pure quel senso di disagio derivato dalla rottura di vecchi equilibri. In questo cercare strenuamente il punto d’incontro tra i lasciti di un Novecento industriale e i suoi riverberi nella vita culturale e morale della nostra nazione sta il cuore del discorso. Che vorrebbe anche essere una riflessione su come le trasformazioni antropologiche non siano state comprese appieno nel secolo scorso e oltre, fino ai giorni nostri. «Modernità» è un termine che allude a un argomento scivoloso, mai univoco, declinato quasi sempre per approssimazioni o strati: è moderno il personaggio di Ulisse tanto quanto Cristoforo Colombo, il Rinascimento come il Secolo dei Lumi. Dove sta la sua definizione? Un dato è però imprescindibile: la modernità a cui si guarda è quella industriale, che in Italia si è affermata in maniera definitiva e in forma compiuta tra gli anni trenta e i quaranta del secolo scorso, interessando con le sue discussioni anche il campo della politica, della cultura, dei linguaggi filosofici ed economici. Il problema non è stato solo il rapido consolidarsi di un altissimo livello tecnologico, inevitabile e necessario per una nazione che intendeva collocarsi dentro l’Occidente. È stata la reazione al cambiamento sia nella gente comune sia nelle élite intellettuali, a cui spesso si deve il racconto di una civiltà il più delle volte corrosivo nei risultati interpretativi, severo nei giudizi, espressione di un’antimodernità (più che di una convinta adesione alla modernità) che ha affondato le sue radici nel sostrato ideologico di un secolo complicato, votato allo scontro tra i modelli di società anziché al dialogo e all’integrazione.

Ora che il Novecento è terminato da oltre vent’anni – e sono sparite le ideologie, si sono modificati gli scenari internazionali e gli equilibri politici coabitano con le oscillazioni dei mercati –, ora che il termine «fabbrica» indica altro rispetto ai decenni passati, diventa necessario ripercorrere il rapporto tra cultura e industria alla luce di un’ipotetica controlettura della modernità, alla luce cioè di un’interpretazione del moderno che non ha goduto di fortuna (perché rimasta nei sotterranei del secolo, mancando le condizioni ideali per emergere) eppure originale, alternativa, progettuale. Questa visione, che raramente ha avuto i suoi interpreti e le sue figure di riferimento in alcuni imprenditori e in alcuni intellettuali, segue pari pari l’altra, quella consueta a cui ci ha abituati il secolo, e mette a nudo una serie di malintesi che non solo hanno impedito di comprendere fino in fondo i fenomeni, ma continuano a segnarne i rapporti nei giorni nostri, in un’epoca abbondantemente oltre la nozione di industria che il Novecento ci ha restituito. Questo dato è rintracciabile nella stragrande maggioranza dei titoli che finiscono sui banconi delle librerie tanto da favorire il sospetto che le numerosissime narrazioni dedicate al lavoro in fabbrica altro non siano che una ripresa (forse di maniera) delle questioni ferme ai risultati ideologici di un Novecento ancora in auge. Anche questo aspetto contribuisce a confermare i caratteri di un tempo non compreso, un tempo malinteso, e rende non scontato, anzi sorprendentemente attuale, il bisogno di discutere sul moderno in un’epoca dove il moderno non esiste più, sostituito dalle definizioni di postmoderno o di ipermoderno.


Tratto da “La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana”, di Giuseppe Lupo, Marsilio, pp. 368, 20 euro.

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