La de-renzizzazione (secondo la Treccani, «il sottrarsi a legami, influenze e riferimenti relativi a Matteo Renzi e alle sue posizioni politiche») per Elly Schlein è uno degli elementi decisivi della sua scesa in politica anche se viene da lei condotta un po’ a casaccio, senza un metodo e una tempistica razionali, tanto che improvvisamente ha deciso di seguire il referendum della Cgil sul Jobs act, una legge varata otto anni fa dal governo Renzi e indicata da Maurizio Landini alla stregua di una delle sette piaghe d’Egitto. A dire il vero non è chiarissimo se la segretaria inviti a firmare (tra parentesi forse servirebbe una decisione formale da parte di qualche organismo ma ormai questa pare una prassi superata), ma in questo caso i militanti e ovviamente i dirigenti del Partito democratico saranno chiamati a sottoscrivere un referendum che probabilmente non si farà mai soprattutto perché si tratta di una legge che ha funzionato abbastanza.
La cosa più tragicomica è che moltissimi parlamentari e dirigenti otto anni fa c’erano e quindi dovrebbero sconfessare se stessi in una grottesca operazione di damnatio memoriae o se si preferisce di clamorosa abiura come quelle che venivano imposte ai tempi dell’Inquisizione o dello stalinismo. Non vorremmo essere nei panni, per dire, di Graziano Delrio o di Dario Franceschini, all’epoca pezzi grossi del partito e del governo e ferventi sostenitori, specie il primo, di Matteo Renzi, o degli attuali capigruppo, Chiara Braga e Francesco Boccia, o di membri della segreteria di Schlein come Debora Serracchiani o Marina Sereni: questi c’erano tutti, ma così va la storia.
Contro il Jobs act nel 2015 si schierarono apertamente in tre: Corradino Mineo, Pippo Civati e Luca Pastorino. I primi due sono da tempo fuori dalla politica, il terzo, che era andato con Articolo Uno, ieri ha ricevuto la tessera del “nuovo Pd” direttamente da Schlein, questo nuovo Pd ormai totalmente bersanizzato.
Si possono fare varie critiche al Jobs act ma non pare sinceramente un argomento fondamentale nella attuale fase politica e tuttavia Schlein, con Landini, sente che la sterzata a sinistra impressa al Pd consente oggi di colpire questo target riformista e renziano come se fosse un idolo pagano che la nuova religione non ammette. Le argomentazioni mescolano cose diverse tra loro purché il messaggio propagandistico alla fine suoni chiaro: quella legge del governo Renzi è alla base della precarietà, ergo tolto quello tutti saremo assunti a tempo indeterminato, felici e contenti.
Tommaso Nannicini, che ne fu l’ispiratore principale, ha però recentemente ricordato che è una «mistificazione» l’idea che «il Jobs act abbia prodotto precarietà, contratti insicuri. Al contrario, rispetto alle riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, che s’ispiravano alla cosiddetta flessibilità al margine puntando tutto sui contratti temporanei, era la prima volta che si provava a combattere il precariato, abolendo i co.co.pro., contrastando le dimissioni in bianco e stringendo le false partite Iva, con una norma che a Torino i rider hanno usato per avere più diritti (Dlgs 81/2015)» (Il Riformista, 16 maggio 2023).
Ma andando persino al di là del merito ciò che colpisce è un elemento quasi psicanalitico che si cela dietro questa raccolta di firme, se mai decollerà, e cioè una tensione tecnicamente reazionaria che si esprime nella scelta di demolire i simboli dell’epoca precedente peraltro senza capire bene per far posto a che cosa.
Si tratta insomma per la seconda volta di un’azione di annullamento di fatti politici sempre per mano della corrente della ex sinistra Ds (meglio nota come “Ditta”) che nel 2009 iniziò a smantellare i capisaldi del veltronismo e che da anni lavora, prima dall’esterno e ora dall’interno del Pd, allo smantellamento di ciò che resta del renzismo.
Forse non del tutto consapevolmente (anzi) nel febbraio scorso il popolo delle primarie ha restituito il comando del partito proprio a questa corrente tramite l’estranea Elly Schlein che da sempre è in sintonia con i “reazionari”, ripetiamo, in senso tecnico: reagiscono alle rivoluzioni di Veltroni e Renzi che in modo diverso puntavano a modificare la politica e anche elementi di fondo della natura del Pd.
Viene in aiuto una frase del più grande pensatore dell’epoca della Restaurazione, Joseph de Maistre, che durante il Grande Terrore scrisse: «Secondo il mio modo di pensare il progetto di mettere il lago di Ginevra in bottiglie è molto meno folle di quello di ristabilire le cose proprio sulle stesse basi in cui si trovavano prima della Rivoluzione». Infatti le rivoluzioni non si fermano con le firme. Ma almeno quello del barone reazionario era un progetto politico fortissimo, qui sembra di assistere a dispettucci, a piccole rivalse, all’esternazione di rancori a lungo coltivati. La politica sembra entrarci poco o nulla.