Le Big Tech tirano il fiato. I risultati annunciati la scorsa settimana dai giganti di Silicon Valley e dintorni hanno mostrato per il secondo trimestre 2023 una pioggia di utili che ha riguardato tutto il settore tecnologico statunitense. Alphabet, la holding a cui fa capo Google, ha chiuso con ricavi in aumento del sette per cento, a 74,6 miliardi di dollari, così come Microsoft che ha archiviato il trimestre di fine giugno con un rialzo dell’otto per cento (e un utile in crescita del venti per cento). Anche Amazon sorride: l’azienda fondata da Jeff Bezos ha concluso il trimestre sopra le aspettative, con una crescita dell’undici per cento rispetto allo scorso anno, a 134,4 miliardi di dollari. Circa tre miliardi in più delle previsioni degli analisti. Apple è stata l’unica a presentare un leggero calo dei ricavi (meno uno per cento), risentendo della flessione di vendite degli iPhone ma registrando al contempo un aumento dei profitti grazie al sostanzioso sviluppo del settore dei servizi, da iCloud ad Apple Music.
Non sono state stappate bottiglie di champagne, ma da Cupertino a Seattle si è tirato un lungo respiro di sollievo. La ripresa generale sembra aver già fatto dimenticare il capitolo licenziamenti vissuto tra la fine del 2022 e l’inizio di quest’anno, con i massicci tagli al personale che avrebbero svolto un ruolo centrale in questa sovraperformance finanziaria.
Ora però, tutti gli occhi sono puntati verso la vera next big thing: l’intelligenza artificiale generativa. Il clamore suscitato dai nuovi modelli ha alimentato quello che il Financial Times ha definito un «rally» all’interno del settore tech, che ha contribuito a far salire l’intero mercato azionario statunitense. L’ottimismo ha caratterizzato le borse, alimentando il Nasdaq – l’indice azionario che comprende i principali titoli tecnologici – e dando il via a una nuova corsa all’oro.
Sono mancate, tuttavia, previsioni accurate da un punto di vista prettamente finanziario. La paura è che la nuova ondata di finanziamenti in questa direzione non produca gli effetti sperati. A fine luglio, Microsoft ha presentato un piano di spesa aggressivo, con un notevole aumento dei costi per la costruzione di nuovi centri dati e per l’infrastruttura Cloud Azure a supporto di ChatGpt, software di proprietà di OpenAI, realtà sovvenzionata dal colosso di Redmond. Il direttore finanziario di Microsoft, Amy Hood, ha dichiarato agli analisti che gli investimenti dell’azienda continueranno ad aumentare ogni trimestre per tutto il 2024 (Morgan Stanley ha stimato uno stanziamento di cinquanta miliardi di dollari: si tratterebbe di un aumento di oltre il cinquanta per cento rispetto all’anno precedente e più che doppio rispetto a due anni prima).
Per quanto riguarda Meta, nel 2022 le spese in conto capitale hanno raggiunto la cifra record di 31,4 miliardi di dollari e sono previste somme simili per il 2023, con molto di questo denaro destinato al miglioramento e all’espansione dell’infrastruttura relativa ai software generativi. Secondo Stacy Rasgon, analista intervistato dal New York Times, l’impennata della spesa per sostenere lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ricorda gli investimenti nei server alla fine degli anni Novanta e nei data center nel 2010.
Ma, promesse a parte, gli investitori si sono fatti sentire. Alle domande su quando si vedranno i risultati dei finanziamenti sul fronte delle intelligenze artificiali generative, le Big Tech d’America hanno fornito risposte piuttosto vaghe. Andy Jassy, amministratore delegato di Amazon, ha dichiarato che la tecnologia è nelle «fasi iniziali» e che il settore è solo «alla partenza della maratona». Tim Cook, numero uno di Apple, ha spiegato più volte che «ci sono una serie di questioni che devono essere risolte» a proposito delle intelligenze artificiali. Persino Microsoft ha offerto una previsione cauta, dichiarando che l’impatto sui ricavi sarà «graduale» man mano che le funzionalità saranno lanciate e inizieranno a essere apprezzate dai clienti. Parole che hanno fatto crollare del sette per cento il valore delle sue azioni nella settimana successiva.
Il Washington Post ha evocato lo spettro di una vera e propria bolla speculativa, spiegando come non sia ancora chiaro quando questa tecnologia diventerà effettivamente redditizia, o se lo diventerà mai. Le aziende sono sempre più consapevoli dei suoi costi di sviluppo: dai processori necessari per farla funzionare fino all’installazione sempre maggiore di server di dati, senza dimenticare gli stipendi degli ingegneri coinvolti. Per rendere l’idea basti pensare a Nvidia, l’azienda che produce microprocessori adatti all’IA e che ha visto la sua valutazione crescere a dismisura nell’ultimo anno, catapultandosi al sesto posto tra le aziende con maggior capitalizzazione al mondo (1,1 trilioni di dollari).
Come se tutto ciò non bastasse, resta l’ombra di un inasprimento della battaglia legale contro i software generativi, per la loro abitudine a fare scraping – ottenere dati – su opere tutelate dal diritto d’autore. I risvolti giudiziari su questo fronte potrebbero portare a uno stravolgimento improvviso dell’intero mercato.
Negli ultimi decenni la Silicon Valley ha vissuto, uno dopo l’altro e con successi alterni, diversi cicli di hype. La famigerata bolla delle dot-com di inizio anni Duemila ha visto le aziende quotarsi in borsa e raccogliere centinaia di milioni di dollari dagli investitori solo per il fatto di avere “.com” nel nome. All’epoca, molte società hanno lottato per la supremazia: alcune di loro hanno costruito imperi, altre sono cadute nel dimenticatoio. Chissà quanto grande sarà il dimenticatoio questa volta.