A scatenare la nevrosi del boomer non sono le battute dei pischelli, i meme del buongiornissimo, le maledette prodezze dell’homo monopattens sulle piste ciclabili e non. A farci sentire boomer veramente, condannati all’incomunicabilità digitale è il link Parla con noi nelle pagine di assistenza al cliente dei siti. Sappiamo che dietro c’è un pensiero. Nato in anni in cui l’interazione uomo-macchina era qualcosa da ricercare più in film come Blade Runner che sulle piattaforme pioneristiche delle aziende. Erano gli anni in cui, mentre si imponeva il mito del femminino telefonico Megan Gale, che rendeva sexy gli sms e hot le telefonate di Omnitel, c’era gente come Maurizio Mesenzani che arrivava dritto dalla Boston University e dialogava con le aziende per «aggiungere valore alla relazione uomo macchina».
Sembra impossibile ma gli ingegneri imprenditori come lui oggi parlano di anni mitologici, i primi anni Zero: «Aziende come ING direct a Fineco proponevano qualcosa di mai visto prima. E lo sforzo era creare nuove relazioni con il cliente», spiega Mesenzani, oggi al timone della BSD società che studia le interfacce. «Anni durante i quali abbiamo capito che il marketing era pronto a parlare direttamente con gli utenti, a seguirli nell’approccio al bisogno, alla soluzione di acquisto e al servizio post-vendita».
Ma allora perché oggi a più di vent’anni dalla rivoluzione ci troviamo a smadonnare contro i customer care online? Perché la sensazione è che, senza umani senzienti che ti risolvono i problemi, siamo tutti in balia di risposte automatiche standardizzate che solo una volta su cento ci danno la soluzione a ciò che cerchiamo? O, peggio, perché è imperante l’opinione che l’unico obiettivo per banche e colossi dell’energia sia eliminare i costi umani?
L’automazione imbelle e arraffazzonata, le interfacce che non si interfacciano, gli assistenti vocali che non capiscono, fanno pensare che alla fine nessuno abbia davvero a cuore la soluzione dei problemi delle persone. Qualcosa è andato storto nella ricerca virtuosa del valore della relazione.
Visione buonista della faccenda: le macchine sono ancora troppo rozze per aver a che fare con gli umani. Visione incazzata: il luddismo, che nei primi anni del diciannovesimo secolo predicava la distruzione delle macchine che ci vogliono sostituire è un fenomeno da rivalutare.
Ebbene, c’è un modo civile per suggerire alle aziende di usare il buon senso, quando vogliono “parlare con noi”. Sì, noi che siamo fallibili, umani di ogni età che con le loro infauste manine ne combinano a bizzeffe sui siti di banche ed ecommerce, noi rappresentanti della boomeranza insipiente, vi vogliamo chiedere poche e significative accortezze.
Per esempio, educare all’umano i progettisti delle piattaforme di assistenza può essere un inizio. È invece essenziale educare i loro manager nelle aziende, cercando di fargli capire che il tempo ha un valore, che chiederci di esprimere il nostro problema in modo dettagliato per poi farci rispondere da un algoritmo con suggerimenti di articoli da leggere fa soltanto innervosire. Poi: basta domandarci se la risposta ci è stata utile. No, lo sapete benissimo che non ci è stata utile, anzi ci ha fatto venire la gastrite.
Ancora: con l’intelligenza artificiale c’è il rischio duping, ovvero una confusione mentale tutta nuova, tipica di quando pensiamo di avere a che fare con un umano e poi ci accorgiamo che no, stiamo parlando, scrivendo e inveendo contro il nulla eterno digitale. Migliorate i contenuti, non le voci artificiali, per favore.
Ma a queste figure mitologiche che stanno dietro agli assistenti automatici rivolgiamo la richiesta più importante: non prendeteci in giro. «Consiglieresti ai tuoi amici questo sito/questa app/questa diavoleria?» è una domanda davvero assurda. Certo, come no, proprio l’altro giorno giocavo a ping pong con un amico che mi ha esposto un problema. E infatti gli ho subito risposto «Hai provato a parlarne con Tobi di Vodafone?».