La Federazione Italiana Gioco Calcio non si è distinta negli ultimi anni per organizzazione, lungimiranza, coraggio e prontezza di riflessi. Tuttavia, la tempesta perfetta scatenata dalla famigerata PEC inviata da Mykonos la sera del 12 agosto, in cui Roberto Mancini annunciava le proprie dimissioni da commissario tecnico della Nazionale, è stata disinnescata con velocità e brillantezza che hanno persino del paradossale.
In questi mesi Gabriele Gravina è diventato un uomo estremamente impopolare. Il paravento del trionfo di Wembley ha retto finché sul capo della Nazionale non si è abbattuta la tremenda mazzata della Macedonia: l’amarissimo flop sportivo ha reso di colpo intollerabile tutto il resto che facevamo finta di accettare, dall’imbarazzante alleanza con la Turchia per l’organizzazione degli Europei 2032 a una giustizia sportiva grottesca nei tempi, nei modi e negli interpreti (la Serie B sta iniziando con il dieci per cento delle sue partecipanti – due squadre su venti – ancora appese al giudizio del Consiglio di Stato). Così anche in queste ore Gravina viene bastonato da tutte le direzioni, come la vittima designata di uno spettacolo di burattini, e ci sembra onestamente troppo. Provateci voi, a risolvere in una settimana una crisi di metà agosto potenzialmente esplosiva per il peso degli attori in campo e della posta in palio. La sua colpa era di aver blindato a suo tempo Mancini con un contratto di lunghezza spropositata, che ha finito per rivelarsi una trappola; ma il presidente ne è uscito con furbizia, trasformando un potenziale bagno di sangue in una clamorosa operazione win-win-win.
I più maliziosi di voi potranno associare le lamentele di Mancini sul cambio di staff, sinceramente un po’ pretestuose, a una morbida strategia graviniana di lavoro ai fianchi: non posso cacciarti perché mi costeresti troppo, ma posso spingerti alle dimissioni, anche se mancano appena venti giorni a due partite delicatissime, nella ragionevole certezza di portare in azzurro uno dei due pesi massimi sulla piazza, Conte o Spalletti. Missione compiuta, anche se forse Gravina sognava un blitz senza «spargimenti di sangue o di detersivo» per dirla alla De André, un lavoro da professionista tipo Ethan Hunt in Mission: Impossible, e invece è incappato nel solito teatro vomerese di De Laurentiis.
Aurelio De Laurentiis non ha resistito nemmeno stavolta alla tentazione di fare il Don Rodrigo, proclamando con toni neoborbonici («per il Napoli tre milioni non sono molti, per me ancora meno») il rischio che questo matrimonio non s’abbia da fare. La clausola da due milioni e seicentoventicinque mila euro, o forse meno, di cui pretende il pagamento risulta tuttora nebulosa: vale anche per la Nazionale, che non è una squadra che fa concorrenza al Napoli? E forse ADL, sbandierando le cifre ai quattro venti, non ha violato il “vincolo di riservatezza” previsto nell’accordo? Eppure non aveva ragione, bensì ragionissima quando ha inchiodato la FIGC al proprio dilettantismo amministrativo: se non sai tutelarti dall’eventualità che il tuo allenatore ti lasci a piedi a due giorni da Ferragosto, problemi tuoi.
Gli avvocati e le diplomazie lavoreranno sottobanco per risolvere questa grana tipicamente aureliana, questione di principio più che di portafoglio, che si inserisce nel disegno più grande – condotto in sinergia con Claudio Lotito – di fare le scarpe prima o poi al “dilettante” Gravina, per sostituirlo con chissà chi. Ma in fondo tutto quest’intrigo pone un macigno sull’ipotesi che più turbava lui e l’ambiente napoletano: che, a clausola scaduta, Spalletti potesse accasarsi alla Juventus di Cristiano Giuntoli.
Quanto a Roberto Mancini, siamo ancora convinti che supererà facilmente questo breve temporale estivo, facendosi scivolare sull’abito elegante le populistiche accuse di irriconoscenza che gli sono piovute nell’ultima settimana. La domanda è banale quanto la risposta è inevitabile: voi, per trenta milioni a stagione per quattro anni, cosa fareste? È un peccato perdonabile lasciare a piedi una Nazionale verso la quale da diciotto mesi aveva smarrito ogni entusiasmo, anche perché spossato nel morale dalla scomparsa di due fratelli come Sinisa Mihajlovic o Gianluca Vialli. Anche se gli rimane ancora qualche dubbio se intraprendere o meno la lunga avventura saudita, con l’obbligo di residenza per oltre centottanta giorni l’anno in Arabia, lussuoso scatolone di sabbia dove non mancano ottime strutture di golf e padel per ingannare l’attesa del Mondiale 2026.
E infine Luciano Spalletti, il vero trionfatore di questa vicenda. Si toglie dalla scomoda posizione di attesa di un club in crisi, in cui avrebbe avuto il peso supplementare di dover perlomeno eguagliare gli straordinari risultati di Napoli, e sale sul trampolino della Nazionale. Abbiamo letto che nella città campione d’Italia, in uno Spalletti ct dell’Italia, qualcuno vedrebbe addirittura il seme del tradimento: non diciamo sciocchezze. Una panchina che per tanti colleghi è un fattore d’ansia, se non proprio una scocciatura, per Spalletti sarà invece il coronamento di una carriera senza mezzucci né scorciatoie, dopo aver fatto bene dappertutto e coniugato risultati e successo di critica.
A sessantaquattro anni non è semplice immaginarlo finalmente pacificato, ma il ruolo istituzionale potrebbe dargli nuovo slancio per ottenere ciò che non gli è mai riuscito con nessuna tifoseria, nemmeno quella del Napoli: unirla con la forza degli argomenti e del gioco, in nome di un ecumenismo alla Sergio Mattarella che magari ci aspetteremmo da un Carlo Ancelotti o un Claudio Ranieri, e invece potrebbe arrivare da Luciano da Certaldo, il primo ct fiorentino in centotredici anni di storia della Nazionale Italiana.