In una guerra ci si focalizza sul numero dei caduti, ma c’è un dato altrettanto importante. Quello dei feriti. Impedire che passino dalla seconda categoria alla prima, salvare la loro vita – negli «stabilization point» a ridosso del fronte e poi negli ospedali – fa parte dello sforzo titanico degli ucraini. C’è un terzo tempo: rimettere i soldati nelle condizioni di combattere e, un giorno, di vivere un’esistenza normale.
Una statistica delle più dolorose, tanto per la nazione in armi quanto per i civili inermi, riguarda le amputazioni. Si calcola che dai venti ai cinquantamila ucraini abbiano perso una parte del corpo dall’inizio dell’invasione. Una cifra così alta, specialmente tra i cittadini a causa del terrorismo della Federazione, non si vedeva dal Primo conflitto mondiale, come ha raccontato il Wall Street Journal.
Per dare un’idea: nella carneficina del 1914-1918 si calcola che 67mila tedeschi e 41mila inglesi abbiano subìto un’amputazione, al tempo una delle uniche tecniche d’emergenza disponibili. I media che spettacolarizzano la controffensiva, titolano sui suoi «rallentamenti», mancano di rispetto al prezzo disumano che paga, in termini di lutti e di conseguenze incancellabili.
Un paziente dovrebbe ricevere una protesi entro novanta giorni dall’amputazione per evitare l’atrofia, ma a causa della scala dei bombardamenti russi, delle mine che hanno disseminato ovunque, il sistema sanitario fatica a tenere il passo. In alcuni casi l’attesa è di un anno. È particolarmente grave la situazione dei bimbi, che devono cambiare più di un apparecchio sostitutivo mentre crescono.
Il governo di Kyjiv stanzia ventimila euro ai soldati mutilati, la ditta specializzata Ottobock pratica sconti, ma molte persone riescono a permettersi il trattamento grazie agli enti caritativi e alle raccolte fondi. Un altro problema – lo stesso che incontra l’esercito – è la carenza di medici e infermieri o, nel caso della riabilitazione, di figure con una formazione specifica.
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Una fondazione molto attiva è Superhumans. La direttrice, Olga Rudneva, ha detto al giornale americano che riescono a trattare solo cinquanta amputati al mese. Tra i suoi testimonial, ed è pazienti, c’è l’appena ventenne Ruslana Danilkina, ex soldatessa ferita dagli shrapnel di un ordigno russo, e il ventiquattrenne Denys Kryvenko, che ha perso entrambe le gambe e un arto nell’inferno di Bakhmut.
Il New York Times ha descritto come funziona il sistema di pronto soccorso. Quattro linee di trattamento collegano le trincee ai venti ospedali della regione, una cinquantina di unità mediche sono distaccate assieme alle brigate. Ci sono «codici» colorati: verde, il più lieve; giallo; rosso, il peggiore. Per salvare una vita a un ferito, dovrebbe raggiungere l’ospedale in venticinque minuti. A causa dei bombardamenti, a volte ci arriva dopo ore.
È negli stabilization points, un’altra prima linea, che si fanno miracoli. All’Ucraina non servono lodi per quest’eroismo, non ha tempo di ascoltarle: le occorrono bendaggi, farmaci, protesi, munizioni. È cauta nell’avanzata perché, a differenza del Cremlino che macella come carne da cannone le sue truppe, conosce fin troppo bene quale sacrificio c’è dietro a ogni località riconquistata.