La curia e l’aggressore L’Europa non va criticata per come sta sostenendo l’Ucraina, ma per non averlo fatto prima

Al Meeting di Rimini il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha accusato Bruxelles di fare poco per la pace, ma non è così: dal 24 febbraio 2022 ha sostenuto lo sforzo bellico della resistenza, creato un percorso straordinario per includere il Paese tra i nuovi membri e comminato pacchetti di sanzioni per fermare la Russia

AP/Lapresse

Qualche giorno fa, intervenendo al Meeting di Rimini, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e inviato speciale del Santo Padre per l’Ucraina, ha nuovamente accusato l’Europa di fare poco o nulla per la pace. Una tesi sostenuta da molti ambienti della sinistra italiana e dalle realtà dell’associazionismo pacifista, una tesi che più il tempo passa più diventa l’ennesimo argomento per indebolire il fronte difensivo e resistenziale del popolo ucraino.

L’Unione europea e il complesso delle sue tre istituzioni, Consiglio, Parlamento e Commissione, in questi mesi non ha solamente sostenuto lo sforzo bellico di Kyjiv e comminato svariati pacchetti di sanzioni ma costantemente lasciato un canale di dialogo aperto col Cremlino che nel corso del tempo si è rivelato vano e inutile, per una ragione molto semplice: la diplomazia raramente può far cambiare idea a chi pianifica una guerra di aggressione.

Ma l’Europa e tutti i Paesi occidentali (compresa la Santa Sede) c’è da dire che sulla questione Ucraina hanno immense responsabilità che risalgono ai tempi di Euromaidan e della prima invasione della Crimea e del Donbas. L’Europa e l’Occidente nel suo insieme ignorano quello che avveniva a Kyjiv e tutti i provvedimenti presi dopo l’annessione criminale della Crimea nel 2014 furono teorici. Ad esempio, il Consiglio Europeo decise di vietare l’esportazione di armi dei Paesi membri verso la Russia, un finto embargo visto nel quinquennio tra il 2015 e il 2020 al Cremlino furono vendute armi, mezzi e attrezzature militari per un totale di trecendoquarantasei milioni di euro. Su questi armamenti dalla Santa Sede e dai movimenti pacifisti in quegli anni non arrivò nessuna condanna, non ci fu nessuna campagna contro un sistema che alimentava con armi e risorse derivanti dagli introiti di gas, petrolio e carbone la dittatura russa.

La timidezza passata dell’Europa e dell’Occidente è parte del problema ucraino perché in fin dei conti il calcolo geopolitico che fu meschinamente operato fu: meglio tener buona la Russia che sostenere l’Ucraina.

E questo calcolo lo fece anche la Santa Sede che ospitò, su richiesta della Chiesa greco-ucraina nel 2015, un incontro a porte chiuse, con tutte le Chiese ortodosse proprio sulla crescente pressione di Vladimir Putin sull’area; i rappresentanti ucraini chiesero un impegno a Papa Francesco per fare pressione per il ripristino della legalità internazionale, esponendo il rischio di future escalation.

Non ci furono più incontri successivi. Non ci furono azioni successive se non stimabili e importanti campagne di raccolta fondi e solidarietà per le vittime del conflitto.

Negli ultimi due anni la Chiesa di Roma non ha tracciato una discontinuità rispetto al passato cercando di portare a termine azioni diplomatiche che puntassero al cessate il fuoco e alla fine del conflitto senza chiedere un disimpegno totale della Russia dall’area, una sorta di richiamo agli uomini di buona volontà dagli scarsi esiti che però determina un’ambiguità strutturale nel nostro dibattito pubblico.

Il Cardinale Zuppi ad esempio dimentica che l’Europa, con un percorso straordinario, punta a includere Kyjiv all’interno dei Paesi membri e che questo rappresenta l’unico punto di caduta utile a est, che con altrettanta rapidità ha permesso nel corso del conflitto un sostegno all’economia e alle istituzioni del Paese evitando il rischio di una erosione democratica preziosa per un futuro di pace. Inoltre, questa Europa, ancora troppo figlia delle volontà intergovernative, è l’unico porto di sicuro approdo per milioni di rifugiati e di dissidenti.

C’è da chiedersi se un pezzo della discussione che la Chiesa porta avanti è figlio di un condizionamento politico che si vive nelle stanze vaticane dove negli ultimi dieci anni si è puntato molto e forse troppo ad un’apertura verso la Cina, apertura che vede proprio i Gesuiti come pontieri di un dialogo che punta a far diventare la Santa Romana Chiesa non un elemento disturbante del regime di Pechino ma coadiuvante di un nuovo mondo multipolare con meno democrazia e più soft power vaticano.

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