Sono molto grato di di essere stato invitato a rispondere alla domanda dell’edizione di quest’anno di Big Ideas: “Chi pensi di essere?”. È una domanda che mi rivolgo spesso e che talvolta sottopongo ad altri. Ma il filosofo-tafano che è in me questa volta vuole essere molesto. Per prima cosa sono costretto a question the question, a mettere cioè in discussione la domanda stessa e a indagare innanzitutto i presupposti che ci spingono a porla.
Quando ci viene chiesto che cosa pensiamo di essere, di fatto ci viene chiesto di spiegare come si sviluppa la nostra percezione di noi stessi. Un modo per poterlo fare è descritto con dettaglio nelle linee guida che ci sono state date dai redattori di Big Ideas – fornire «un racconto di sé saggistico o narrativo» o, per dirla in modo più semplice, «una bella storia». È una cosa molto ragionevole. C’è qualcuno a cui non piacciano le belle storie? Ma questo, naturalmente, mi porta a fare delle altre domande. Qual è la connessione fra lo sviluppo di una percezione di sé e il racconto di sé? In che modo la domanda sul “Chi sei?” e sul “Chi sono?” diventa una questione di storytelling? Il sé è una storia?
È su quest’ultima domanda che devo fermarmi un attimo a indagare. Semplicemente non si può negare la forza onnipresente dell’idea narrativa del sé. È una cosa che nella nostra cultura ha un ruolo dominante: noi siamo le storie che raccontiamo su di noi – e, migliore è la storia, migliore è il sé che la racconta.
Filosofi importanti come Alasdair MacIntyre, Paul Ricoeur e Charles Taylor sostengono tutti una qualche versione dello stesso concetto e cioè che l’unità di una vita individuale è coerente con l’unità della narrazione che facciamo di quella vita. Per il filosofo Daniel Dennett «siamo tutti romanzieri virtuosistici» e «cerchiamo di tirare fuori un’unica storia coerente da tutti i materiali che abbiamo. E questa storia è la nostra autobiografia». Per Oliver Sacks, neurologo “filosofico” e narratore compulsivo, «ciascuno di noi costruisce e vive una “narrazione” […] e questa narrazione è ciò che siamo, è la nostra identità».
Si tratta di un’idea molto avvincente, se non addirittura irresistibile. Chi non vorrebbe vedere la propria vita come una storia che si sta svolgendo, come una ricerca o come quello che il popolare professore e scrittore Joseph Campbell definiva, nei suoi studi sulla mitologia, come «il viaggio dell’eroe»? La storia è ciò che motiva e giustifica l’egemonia dei memoir, che rappresentano – non dimentichiamolo – gran parte di ciò che resta dell’industria editoriale.
L’aspetto seducente dell’idea di rendere il sé qualcosa di narrativo risiede nel fatto che la storia della propria vita può essere raccontata come qualcosa che ha un inizio, una parte centrale e una fine. Spesso la storia avrà come perno un qualche trauma decisivo del passato (può andare bene qualche abuso subito o qualche dipendenza) o sarà incentrata anche solo sul fatto di essersi divertiti troppo con sesso, droga e rock ’n’ roll.
Il modello di una siffatta idea del sé è religioso. Le narrazioni del sé sono molto spesso storie che hanno a che fare con la salvezza e la redenzione: ero un peccatore e ora mi sono salvato. Il pensiero va subito alle Confessioni di Agostino, probabilmente l’autobiografia più influente dell’Occidente cristiano: l’opera racconta la storia della conversione di Agostino da pagano gaudente a vescovo e a strenuo difensore della Fede.
Uno dei libri più letti nel XVIII e XIX secolo è Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan, che descrive in modo vivido il viaggio del sé dal peccato e dalla distruzione di questo mondo alla Città celeste, passando per la Palude della Disperazione o Acquitrino dello Sconforto. Le storie di redenzione di questo tipo sono incredibilmente popolari.
Potremmo pensare che queste storie appartengano al passato, dal momento che si suppone che quella in cui viviamo sia un’epoca secolarizzata. Io sono sempre stato scettico al riguardo, in particolare se si osservano culture ossessionate dalla religione come quella americana, in cui vanno per la maggiore delle autobiografie che sono di fatto dei resoconti di un viaggio verso una salvezza di tipo cristiano. Basti pensare a Barack Obama che ha scritto due autobiografie di questo tipo prima dei cinquant’anni: hanno venduto molto bene.
La convinzione morale che sostiene quest’idea della narrativa del sé è l’idea secondo cui solo attraverso il racconto possiamo conseguire il grande shibboleth dell’era moderna: l’autenticità. Un sé autentico è un sé che può trasformarsi in una grande storia. E le storie di questo tipo possono essere continuamente mercificate. Non sono solo Obama e i suoi colleghi politici a ricorrere a questa tecnica. Lo fanno quasi tutti, dai più sconosciuti diseredati ai ricchi più splendidi e famosi: racconta la tua storia e vendila.
Ma il punto, qui, non è il potenziale commerciale di questo tipo di libri. Quello che sto analizzando e la validità del concetto di “sé narrativo” e, per mettere subito in chiaro le cose, sono scettico. Sospetto che quelli fra noi che raccontano e riraccontano senza fine le storie delle loro vite – tenendo diari, appuntandosi continuamente le proprie cose (si tratta di un’attività così diffusa che a un certo punto, in inglese, è nato il verbo to journal per indicarla) e immaginandosi dei futuri memoir – siano semplicemente impegnati in un atto di narcisismo egocentrico. E la cosa peggiore è che questo narcisismo è spesso travestito da lezione morale.
Qui mi sto appoggiando notevolmente al lavoro del filosofo britannico Galen Strawson che critica l’idea del sé come storia che viene continuamente raccontata e riraccontata mentre si svolge e propone invece un concetto di sé episodico, più transitorio, effimero e discontinuo. Il risultato – e, forse, anche il lato positivo – di questa visione è che invece di vivere ristretto in un passato continuamente raccontato e riraccontato e in un futuro immaginato, il sé episodico vive, per così dire, nel presente, lasciandosi andare e vivendo il momento. Come Strawson, penso che il sé sia descritto in modo più vero se lo si considera come una serie di segnali lampeggianti episodici e non come un grandioso racconto unitario e autocelebrativo.
Fermiamoci un momento qui per rivolgerci all’interno e analizzare il nostro sé. Che cosa troviamo? Diventiamo consapevoli di un qualcosa come una presenza mentale che potrebbe essere completamente definita dal nostro essere fisico oppure no. Ma questi periodi di esperienza ininterrotta del sé sono molto brevi, durano solo pochi secondi o poco più e vengono presto interrotti dalle notifiche del telefono o dalla pesantezza delle palpebre. E che dire del sé che si limita a guardare in lontananza con una consapevolezza vaga e distratta? Perché, non è forse questo ciò che siamo davvero?
Il sé è una strana cosa, incostante e variabile. Può essere quiescente come una sorta di ronzio o fruscio da monitor per poi infiammarsi o essere annegato dall’ansia o essere azzannato o spezzato in due dalla cattiva coscienza. O, ancora, il sé può essere completamente coinvolto e immerso in qualcosa, come quando si guarda una partita appassionante di qualche sport o quando ci si gode una canzone che si ama. In questi momenti, possiamo essere sollevati e portati fuori da noi stessi. Ma poi si torna indietro.
Il sé non è una corrente. Più che un flusso continuo, è una serie di salti e di ripartenze che sfociano in una vigilanza intensa prima di scivolare un’altra volta nell’inattività o nella noia. Si tratta di una serie discontinua di episodi, di un amalgama di interruzioni, pause, momenti di stallo e riavvii. E se una vita così episodica ci condanna all’inautenticità, allora dico: «Amen». Il sé non è una storia. Ma un sé discontinuo ci costringe a vivere nel “qui e ora” invece che in un passato raccontato e in un futuro immaginato. Potremmo persino avere la sensazione che il sé sia costantemente al suo inizio.
La vita non ha bisogno di un arco narrativo. Non dobbiamo essere quelle storie su noi stessi che raccontiamo e riraccontiamo all’infinito. Quelle storie sono un’affabulazione e, se vengono raccontate troppo spesso, una falsificazione. Più prendiamo gusto nel raccontare delle storie su di noi, più rischiamo di allontanarci dalla verità. Non è necessario controllare il proprio senso del sé riportandolo costantemente a una qualche storia inventata sull’identità.
Vivere in modo episodico significa lasciare aperta la possibilità di avere delle sorprese relative al proprio sé. Certo, a volte queste sorprese sono negative. Ma talvolta possono invece essere piuttosto piacevoli. Vivere in modo episodico significa anche accettare che il sé sia un qualcosa di più fuggevole, un qualcosa che è composto da fasci di intuizioni che molto spesso non provengono da dentro di noi, ma dagli altri. Da persone che amiamo e in cui riponiamo la nostra fiducia. O a volte da persone di cui diffidiamo e che troviamo detestabili.
Rinunciare al senso narrativo del sé significa anche – e questa è la cosa più importante – consentire la possibilità di metamorfosi, la possibilità che il nostro sé abbracci nuove forme, nuove identità e nuove personae che possiamo abitare e scartare, per poi passare oltre. E forse la nostra stessa libertà consiste nelle essere capaci di tale metamorfosi.
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