Dopo quasi un anno di crescita ininterrotta il mercato del lavoro vive una battuta di arresto certo non inaspettata. Quella che, nel settore delle costruzioni e dell’edilizia, si sta dimostrando in modo sempre più evidente come una bolla, si sta sgonfiando, mentre l’industria paga il pegno dei rincari dell’ultimo anno. L’economia, insomma, è in rallentamento.
I settantatremila posti in meno tra giugno e luglio, però, per ora non influenzano molto l’andamento tendenziale – ovvero di medio e lungo periodo – dell’occupazione. Rispetto al luglio 2022, infatti, si è verificato un solido aumento di trecentosessantaduemila addetti. Ha riguardato quasi tutti i segmenti e le forme contrattuali, ma non i contratti a termine, che sono scesi di centocinquantatremila unità. Solo una parte di questo calo, sessantaduemila unità, si è verificata nel deludente luglio scorso.
Significa che anche mentre l’occupazione cresceva, e cresceva bene, i posti a tempo determinato scendevano. Questa è probabilmente la vera notizia. Da qualche tempo, da prima della pandemia, siamo di fronte a un silenzioso declino del contratto a termine.
Coloro che sono assunti con esso avevano raggiunto nella primavera 2019 un massimo provvisorio di tre milioni e sessantottomila persone, era il punto culminante di un incremento che è stato di ben il settanta per cento in quindici anni. Quindici anni in cui il tempo determinato e la sua sempre maggiore adozione erano stati i simboli di ciò che nel mercato del lavoro italiano non andava, additati come cause di precarietà, non solo economica, ma anche di vita, soprattutto per i giovani.
Da allora, invece, il suo utilizzo non era più cresciuto, e già prima del Covid era diminuito, al contrario di quello che era accaduto al contratto a tempo indeterminato.
Dopo il comprensibile crollo dei dipendenti a termine durante la pandemia, che aveva colpito quasi solo questa categoria, con la ripresa nell’aprile 2022 si è toccato un nuovo massimo, di tre milioni e centoundicimila dipendenti. Da quel momento, però, è cominciata una discesa più decisa che ha portato il numero di lavoratori a tempo determinato sotto i tre milioni, una cifra che, Covid a parte, non veniva toccata dalla primavera del 2018.
Se prendiamo come termini di confronto numeri di poco successivi, quelli del luglio 2018, quando entrò in vigore il Decreto Dignità, oggi siamo di fronte a un calo del 2,19 per cento, contro un aumento del 6,12 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato.
La variazione è negativa anche se il riferimento è il dicembre 2019, appena prima del Covid, e lo è, dello 0,66 per cento, anche se il paragone è con l’inizio del periodo delle piene riaperture, l’estate 2021.
La crescita contemporanea dei posti permanenti ha fatto in modo che si interrompesse quella crescita, che sembrava destinata a durare per sempre, della proporzione di lavoratori assunti a termine.
Nel corso degli anni del declino economico del nuovo millennio era salita dall’8,1 per cento al 13,2 per cento. Non sono cifre molto grandi, in realtà, ma quello che aveva occupato tutti i media era, appunto, la continua ascesa. Chi avrebbe immaginato che si sarebbe interrotta e che saremmo stati davanti a un’inversione di tendenza? Oggi i lavoratori a tempo determinato sono il 12,6 per cento, infatti.
Cosa forse ancora meno immaginabile, complice un altro declino, quello del lavoro autonomo, la percentuale di chi ha il posto fisso (o presunto tale) ha toccato un record mai toccato dal 2004 a oggi, del sessantasei per cento.
Quando a finire è un fenomeno giudicato negativamente non vi è la stessa eco mediatica che era presente quando si manifestava. La stessa cosa sta accadendo oggi con il lavoro precario. Siamo di fronte a un cambiamento in un certo senso storico, ma se ne parla molto poco.
Ciò è dovuto forse anche a un’altra ragione: tra le cause di quanto accade vi sono due provvedimenti sostenuti da schieramenti tra loro opposti. Uno è il già citato Decreto Dignità, che tra le altre cose ha diminuito le possibili proroghe dei contratti a termine, ridotto le tempistiche per la trasformazione a tempo indeterminato, introdotto l’obbligo di causale per l’utilizzo di questo tipo di assunzione. L’altro è il più conosciuto Jobs Act, che precedentemente aveva reso più facile il licenziamento anche dei dipendenti con contratto permanente, di fatto favorendo il suo utilizzo.
Pochi tra i sostenitori dell’una e dell’altra legge ammetteranno che in realtà sono collegate e complementari. Che l’esistenza del Jobs Act, che rende meno rischiose le assunzioni a tempo indeterminato, ha fatto in modo che i paventati effetti negativi sull’occupazione del Decreto Dignità non si verificassero. O che quest’ultimo fosse necessario in presenza del primo, perché nel momento in cui è possibile licenziare in modo abbastanza agevole non è più molto giustificabile costringere i giovani ad anni di precariato.
Forse solo Carlo Calenda, tra i maggiori fautori del Jobs Act, ha ammesso a suo tempo che il Decreto Dignità, da lui inizialmente avversato, aveva avuto invece un effetto positivo.
Eppure il fenomeno che abbiamo davanti è rilevante perché riguarda soprattutto i giovani. I 15-24enni con contratto a termine tra estate 2018 e estate 2023 sono scesi del 9,39 per cento, nel caso dei 25-34enni il calo è stato dell’11,41 per cento, mentre in quello dei 35-44enni, i primi ad assaporare il precariato all’inizio del secolo, ha raggiunto addirittura il 16,15 per cento.
Cinque anni fa gli under-25 assunti a tempo determinato erano il 67,54 per cento, i 25-34enni nella stessa condizione il 30,89 per cento. Oggi sono scesi rispettivamente al 56,84 per cento e al 26,39 per cento e la riduzione ha riguardato sia il Nord che il Mezzogiorno.
Ciò è avvenuto senza danno per le assunzioni, anzi. negli stessi cinque anni la proporzione di under-35 tra gli occupati è salita dal 21,9 per cento al 22,8 per cento.
Quest’ultimo dato, che si accompagna a una crescita in valore assoluto dei giovani dipendenti, ci dice anche che solo in piccola parte la corsa a offrire contratti a tempo indeterminato a costoro è dovuta al calo demografico e quindi alla scarsità di ventenni e trentenni.
Significa anche che pure in un periodo di crisi e bassa crescita è possibile apportare miglioramenti alla qualità della vita dei lavoratori con le leggi adeguate, persino se queste sono generate da schieramenti politici di segno opposto.
Potrebbe essere di insegnamento per le altre sfide che il mercato del lavoro ha davanti, soprattutto ora che il rallentamento dell’economia sarà sempre più evidente: i salari reali in diminuzione, che pure hanno giocato un ruolo nel buon andamento delle assunzioni, il pericolo di povertà tra i lavoratori, una formazione troppo limitata per i lavoratori senza competenze adeguate.