Il Sahel, in termini geografici ed etnico-religiosi, è una categoria che si sviluppa esclusivamente nel contesto coloniale francese. Il termine, infatti, compare solo tardivamente in inglese e non comprende il Sudan-Khartoum, ex colonia britannica che fa parte della stessa zona bioclimatica. L’antropologia coloniale francese, quindi, ha ripreso le precedenti classificazioni arabe come Sahara (deserto) o Sahel (costa, litorale, margine, che ha dato origine anche allo “Swahili” in Africa orientale). La categoria si riferisce anche all’Algeria meridionale e alla regione di Monastir, Sousse e Mahdia in Tunisia, come vedremo più avanti.
L’antropologia coloniale francese riprende anche la vecchia opposizione tra Nord Africa e Africa subsahariana “nera”, dato che i viaggiatori come Ibn Battûta e gli storici arabi, quando parlano del Paese a sud del Sahara, lo chiamano bilad es-sudan o “Paese dei neri”. L’espressione veniva usata comunemente anche dagli studiosi “neri” di Timbuctù, come Es-Saadi, autore di Tarikh es-Soudan, Storia dei neri o del paese dei neri intorno al 1650. Del Sahel in quanto tale però, come regione geografica, né i viaggiatori né gli studiosi arabi fanno mai cenno. Nel XII secolo Ibn Battûta parla del “paese dei neri” delimitato da una frontiera politica: giunto al “paese dei neri”, osserva che vi risiede il luogotenente del sultano del Mali.
Per i viaggiatori e i cronisti arabi, gli abitanti del Sahel sono “naturalmente” neri, e non c’è dubbio che questa caratteristica somatica sia dovuta alla loro collocazione geografica sull’ecumene. Il cronista Al-’Umarī teorizza la differenza tra i regni “neri” e le popolazioni berbere “bianche” del Sahara, senza tuttavia specificare nulla per il Sahel quando descrive nel dettaglio usi e costumi. Del Sahel non si fa menzione nemmeno tra i viaggiatori, i conquistatori e i primi amministratori coloniali del XVIII e XIX secolo, come Mungo Park, René Caillié, Heinrich Barth o Louis Faidherbe.
La nozione di Sahel appare per la prima volta nella penna del botanico Auguste Chevalier, in missione in Sudan fra 1899 e il 1900. Nel testo Communication sur les zones et les provinces botaniques de l’Afrique Occidentale Française, Chevalier definisce tre zone: saheliana, sudanese e guineana. Al Congresso botanico internazionale del 1900, pochi mesi dopo, questa suddivisione viene specificata e l’espressione “vegetazione saheliana” è impiegata per designare la flora del territorio di Timbuctù. Il Sahel, quindi, si definisce in base alla sua vegetazione specifica, a sua volta dipendente da una determinata piovosità. Originariamente, quindi, Sahel è una categorizzazione botanico-geografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni (isoiete).
Lo stesso vale per l’Algeria e la Tunisia: nel suo diario di viaggio, Isabelle Eberhardt riporta di essere entrata nel Sahel dalla città di Sousse9 . Nello stesso periodo, il tenente Desplagnes, nel corso delle sue esplorazioni dell’altopiano centrale del Niger (paese dei dogon e dintorni) nel Sudan francese, osserva che le tribù moresche Ahlouche e Meischdoufs risiedevano nel “Sahel” sudanese10. Infine, il termine “Sahel” è citato più volte dall’amministratore coloniale, arabista ed etnografo Maurice Delafosse nell’Alto Senegal nigerino (l’attuale Mali) per parlare dei mori e dei soninke11. Si può constatare quindi che a partire dall’inizio del XX secolo la categoria di Sahel era entrata di diritto nella letteratura di viaggio come nei testi di esplorazione coloniale e di etnografia.
Il Sahel prima del Sahel
L’ufficiale Louis Faidherbe fu inviato prima in Algeria e poi in Senegal, dove fu nominato governatore nel 1854. Nei suoi scritti la nozione geografica di Sahel non compare: vi si ritrovano invece contrapposti “Berberia” e “Sudan”, Africa settentrionale “bianca” e Africa subsahariana “nera”.
All’interno dell’Africa occidentale, Faidherbe stabilisce una classificazione che lo porta a contrapporre tre razze: la razza “bianca”, la razza “rossa” e la razza “nera”. Come vedremo, questa classificazione avrà un impatto sulla maniera in cui in seguito sarà concettualizzato il Sahel. I bianchi comprendono i tuareg, che sono berberi, e i mori, che sono arabi. Faidherbe esprime la sua inclinazione per i berberi e la sua avversione per gli arabi, che considera essere dei “fanatici” musulmani. I rossi, invece, sono rappresentati dai peul. Per lui i peul sono originari dell’Egitto: sono propagatori dell’Islam e fondatori di imperi (El Hadj Omar) che opprimono la terza razza, i neri. I peul, in quanto “razza intermedia”, sono quindi il tipico esempio di razza saheliana ante litteram, stereotipo che troviamo in uso ancora oggi.
Questi luoghi comuni si ritrovano in una serie di saggisti ed etnografi del XIX e dell’inizio del XX secolo, affascinati dai peul per le loro caratteristiche fisiche e linguistiche e per il loro stile di vita nomade.
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Le stesse considerazioni bioclimatiche, al netto delle descrizioni etnologiche, si ritrovano in Théodore Monod (1902-2000), famoso naturalista che fu direttore dell’IFAN (Institut français d’Afrique Noire) a Dakar negli anni Cinquanta. Secondo lui, il Sahara è come “un tetto a doppio spiovente” che di fatto separa qualcosa che di per sé è continuo. Monod vede il deserto come un’entità autonoma, visione che in un certo senso riprende il progetto dell’Organisation commune des régions sahariennes (OCRS) concepito dall’amministrazione francese nel 1957. In quest’ottica il Sahel è una zona ecoclimatica che attraversa tutta l’Africa centrale, a nord dell’equatore, tra il deserto vero e proprio, cioè il Sahara, e la savana di tipo sudanese: è una fascia che va dall’Atlantico al Mar Rosso. In questa zona relativamente secca, semi-arida, normalmente piove ogni anno, in maniera più o meno regolare. La zona saheliana inizia a nord con 100- 250 millimetri di precipitazioni e termina a sud con 400-500 millimetri all’anno. Questi dati climatici determinano in larga misura anche la composizione floristica e le caratteristiche della vegetazione: di solito si tratta di una savana più o meno boscosa, con un tappeto di erbe particolarmente fitto dopo le piogge annuali e la presenza di arbusti e alberi.
Il Sahel è quindi una zona di transizione e contatto geografico ed etnico tra il Sahara e la savana, tra i popoli bianchi, i popoli rossi (i peul) e i popoli neri, tra i sedentari e i nomadi, ma anche una zona di separazione geografica ed etnica, che si basa sull’interruzione delle reti che attraversano le diverse zone e i diversi gruppi etnici. Sebbene i peul non siano gli unici abitanti di questa zona, ne sono l’esempio paradigmatico. Né bianchi, né neri, parlano una lingua che gli studiosi esitano ad attribuire alla famiglia delle lingue di origine semitica (Delafosse) o alle lingue “negre” o “atlantiche occidentali” (Faidherbe). Li si ritrova sia come semplici pastori transumanti, sia come iniziatori di imperi sedentari (Boundou, Futa Djalon, Macina, El Hadj Omar). Infine, sono visti come un fattore di miglioramento dei neri quando si mescolano con loro. La considerazione dei peul è quindi profondamente ambigua: sono ritenuti civilizzati, ma allo stesso tempo temuti dalle popolazioni agricole sedentarie; peraltro talvolta sono paragonati agli ebrei.
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Fu così che, per opera degli scienziati coloniali francesi, venne a crearsi a sud e a nord del Sahara uno spazio ibrido che, sotto il nome di Sahel, sarebbe stato destinato a un futuro importante. Si tratta di uno spazio longitudinale che prenderà forma con l’avanzare della conquista coloniale francese da Dakar verso Gibuti: uno spazio interrotto, con grande sconforto dei conquistatori francesi, dalla sconfitta di Fachoda (1898), che bloccò l’impresa.
Tra l’imprevedibilità del nomadismo e la strategia degli agricoltori sedentari, tra una società produttrice e una società predatrice venne tracciato un confine di civiltà che, combinando storia, natura e morale, portò a una visione politica e persino geopolitica che è ancora alla base delle valutazioni contemporanee quando si affronta la questione dei limiti e della mobilità. Da allora in poi, il Sahel fu separato dal Sahara, sebbene non abbia senso se non in relazione a esso. A seconda della situazione regionale o locale, e con le oscillazioni del sistema bioclimatico, pastori nomadi e agricoltori si mescolano, incontrandosi in luoghi dove i primi trovano rifugio nelle annate climatiche avverse e i secondi riescono ad avanzare in quelle favorevoli.