“Io Capitano” non è solamente il titolo di un meraviglioso film ora candidato per l’Italia agli Oscar. È anche una frase vera, pronunciata con orgoglio alla Guardia Costiera italiana da Fofana Amara, un ragazzino quindicenne guineano, un momento prima di entrare nella nuova, tragica fase del suo progetto migratorio. È a lui che Matteo Garrone si è ispirato per la sceneggiatura del film. Quello che si vede al cinema, in altre parole, è assolutamente vero. Le telecamere però si spengono prima di un nuovo dramma, cristallizzando l’urlo di gioia per aver portato a terra sani e salvi duecentocinquanta individui di cui quindici bambini e neonati, venticinque donne, una incinta, del ragazzino costretto dai trafficanti libici a guidare un natante, e lasciando lo spettatore con la sensazione sacrosanta di avere conosciuto la storia epica di un eroe dei nostri tempi.
«A un certo punto – spiega Fofana, ora venticinquenne enne, residente a Liegi, in Belgio, dove lavora in una azienda di trasporti – abbiamo visto la marina militare italiana che si avvicinava, ci dicevano di rimanere calmi e seduti. Allora capii che ce l’avevo fatta, io, che non sapevo neanche nuotare, ero riuscito a portare in Italia tutti sani e salvi e non potendo contenere la gioia, gridai “Je suis le capitaine”. Tutte le persone a bordo con me applaudivano, urlavano “Bravo capitano”. Più tardi vidi che la donna incinta, la prima a scendere, aveva in braccio un neonato e cominciai a piangere, avevo mantenuto tutte le mie promesse».
Subito dopo, però, succede qualcosa di strano e l’Ulisse bambino, più preoccupato per il suo equipaggio che per se stesso, attira su di sé i sospetti delle forze di polizia italiane. «Venni separato dal resto del gruppo e fui portato in un posto di polizia. Convinto che volessero complimentarsi continuavo a ripetere “Io capitano”». In realtà, senza accertare il corso reale degli eventi, l’età e, soprattutto, senza comprendere che un trafficante non urla al mondo «sono io», le forze di polizia italiane procedono all’arresto di Fofana come scafista. Il ragazzo, totalmente inconsapevole di quanto gli stesse accadendo – «Nessuno mi spiegava nulla e quelle poche cose che dicevano erano in italiano che all’epoca non capivo» – viene trasportato nel carcere di Cavadonna, Siracusa, tra mafiosi, omicidi e spacciatori. Tutti, ovviamente, maggiorenni.
A Cavadonna, Fofana trascorrerà due mesi senza che nessuno si interessi di lui. Chiede di comunicare con la famiglia con cui non parla da mesi ma gli viene negato e quando si celebra il processo, il giudice gli chiede: «Quanto hai guadagnato? Chi ti ha pagato?». Inutile spiegare che era stato costretto da uomini armati o provare a far comprendere che se fosse stato davvero uno scafista, non sarebbe arrivato fino in Italia (è molto frequente che i trafficanti libici affidino le imbarcazioni a loro sottoposti che vengono prelevati poco prima di arrivare in Sicilia o ai migranti stessi, proprio per non correre il rischio di venire arrestati all’approdo, ndr) e, soprattutto, non si sarebbe autodenunciato. Per l’Italia è un pericoloso scafista e va perseguito «su tutto il globo terracqueo».
Nei due mesi di carcere, l’unica luce è rappresentata da un compagno di cella di Catania che adotta Fofana, si fa portare vestiario e cibo per lui, lo difende dagli altri carcerati e si occupa di lui come un padre. Quando finalmente le autorità carcerarie si rendono conto che Fofana è un minorenne, lo liberano. «Dopo due mesi, hanno finalmente compreso che ero minore, mi hanno ridato le mie poche cose e sono uscito. Nessuno, però, mi ha spiegato cosa dovessi fare, semplicemente mi hanno messo alla porta e mi hanno fatto capire che erano affari miei», dice lui.
Nessun indirizzo di centri di accoglienza, nessuna informazione di luoghi di assistenza a minori, neanche un biglietto per i mezzi di trasporto. Nessun riguardo per un ragazzino arrestato e rinchiuso per una serie di errori gravissimi altrui tra i quali averlo lasciato tra criminali adulti, contro ogni convenzione. «Il mio amico in carcere – aggiunge Fofana – era di Catania e mi parlava sempre della sua città. Così, senza un criterio particolare, provai ad andare lì».
A Catania, Fofana comincia una nuova vita, finalmente compresa e sostenuta. Ma prima di parlarne, al fine di comprendere come racchiuso nella sua storia ci sia tutto il fallimento delle politiche migratorie europee ed italiane, l’idea illusoria di risolvere la spaventosa questione dei traffici di esseri umani non legalizzando i percorsi dei migranti, ma criminalizzandoli, è utile fare un passo indietro.
Fofana Amara è uno di quei giovani africani che spinti da situazioni di grave instabilità, guerra, disastri ambientali, povertà, o anche semplicemente per studiare, lavorare (perché non dovrebbe essere permesso?) scelgono di tentare l’affondo alla fortezza Europa. Non sono molti, anzi, sono pochi. L’Africa, come dimostrano le statistiche, è un continente in cui si emigra meno degli altri e, soprattutto, lo si fa internamente: oltre l’ottanta per cento delle migrazioni sono ad intra.
In un periodo in cui la parola più utilizzata per spiegare il fenomeno è invasione basterebbe guardare i numeri: nel 2022 sono entrati in Unione europea poco più di trecentomila irregolari (non tutti africani ovviamente), su una popolazione di quattrocentocinquanta milioni circa. Nello stesso periodo, hanno avuto accesso pienamente e sacrosantamente legale tra i sei e i sette milioni di ucraini. Chi invoca invasioni inesistenti, quindi, lo fa senza dubbio in malafede. Se governa Stati, poi, dovrebbe sapere benissimo che l’unico modo per affrontare la questione è legalizzare e normalizzare i flussi. La premier Meloni sostiene che «L’Italia e l’Europa hanno bisogno di migrazione legale», dimenticando, però, che si sta facendo di tutto per mantenerla illegale e questo nonostante Confindustria e piccola e media impresa invochino da anni l’ingresso regolato di forza lavoro di cui hanno disperato bisogno.
Tornando a Fofana, quando, raccolti un po’ di soldi, parte dalla Guinea con un suo amico, ha solo quattordici anni. A differenza di un qualsiasi nostro adolescente, non può chiedere un visto e prendere un aereo, è de facto impossibile che qualsiasi ambasciata europea glielo conceda, e si rivolge quindi ai trafficanti. «In Guinea c’erano state le elezioni, l’opposizione non accettava i risultati e organizzò manifestazioni a cui io e i miei amici partecipammo e venimmo schedati. Le scuole per gli scontri vennero chiuse e io non volevo interrompere i miei studi. Capii che l’unico modo era partire e lasciai la mia città, Beyla, di notte. Prima il Mali, poi l’Algeria e il deserto. Infine la Libia».
A Tripoli i soldi finiscono e quando Fofana e il suo amico implorano il trafficante, il libico fa capire loro che l’unico modo per partire è guidare il barcone. Dopo un primo rifiuto, il ragazzo torna e accetta, si parla di un centinaio di persone ma alla fine diventano duecentocinquanta. Dopo qualche lezione pratica, Fofana per i trafficanti, che lo minacciano con le armi, è pronto. Il resto è già detto sopra: dopo una navigazione di due giorni in cui si comporta, a soli quindici anni, da vero capitano e calma di continuo la folla terrorizzata, dopo un viaggio a piedi in cui subisce violenze e vede morire persone nel deserto o nelle carceri libiche, approda in Italia convinto di essere un eroe.
«Uscito dal carcere con l’aiuto di un ambulante tunisino, arrivai finalmente a Catania», racconta ancora Fofana. «Lì incontrai un africano che mi portò all’associazione dei senegalesi. Mi presentarono un’avvocata che restò sconvolta dalla mia storia, fino a quando approdai nella comunità di accoglienza per minori».
La storia di Fofana, dice a Linkiesta Piero Mangano, responsabile area residenziale Cooperativa Prospettiva dove il ragazzo è stato ospitato, «è quella di tanti ragazzi accolti nella nostra comunità partiti alla ricerca di un futuro migliore e sottoposti a pericoli, ostacoli, traumi. Una storia di sopravvissuti. Gente vittima di leggi e incomprensioni che però resiste e Fofana ne è un esempio: ha preso il diploma all’istituto nautico e l’attestato di skipper facendo della sua disavventura una forza. Continuando a criminalizzarli, non siamo solo disumani, perdiamo grandissime risorse».