L’ultima barricataLo spirito rivoluzionario degli ucraini inebria le strade di Kyjiv (e anche noi)

Un lungo viaggio a bordo di un treno sovietico, la fierezza delle donne che rientrano a casa, il cibo tradizionale, la storia europea e tutto quello che fa dell’Ucraina una nazione formidabile

(La Presse)

Dall’Italia per arrivare a Kyjiv si impiegano circa trenta ore. Fino alla Polonia è un viaggio lungo come un altro, ma a Chelm diventa qualcosa di diverso. Si intuisce già all’aeroporto di Varsavia che questo viaggio è tutto fuorché come qualsiasi altro, in particolare quando il tassista, ascoltando con accento incerto la destinazione «stazione dei treni di Wschodnia», dice: «Ah, andate a Est».

Wschodnia, infatti, è la stazione orientale della capitale polacca da dove parte il Kyjiv Express che in realtà non è un diretto per la capitale ucraina, ma un treno che porta a Dorohusk che prima del capolinea si ferma alla stazione ferroviaria di Chelm. Non a Chelm Maisto, la fermata della città, ma a Chelm e basta, nella periferia di questa cittadina di sessantamila abitanti. Sul binario opposto a quello di arrivo c’è un imponente e buio treno ucraino, che si riconosce dai tridenti stampigliati sulle carrozze d’era sovietica.

È sera, c’è tutto il tempo per attraversare il binario e andare a comprare al deli fuori dalla stazione qualcosa da mangiare e per affrontare le successive quattordici ore in treno. E lì, in coda per comprare una piadina o un piatto di pierogi, ci si rende conto di quello che già si era intuito nella tratta ferroviaria verso Chelm e che diventerà evidente sul treno per Kyjiv, e cioè che i compagni di questo lungo viaggio sono solo donne, giovani, di mezza età e anziane donne ucraine che tornano a casa, come Katryna, per rivedere i genitori o, come Olena, per riabbracciare il figlio che torna in licenza dal fronte di Bakhmut.

Sono donne silenziose, fiere, non appaiono tristi, non sembrano vinte, semmai rassegnate a vivere con determinazione la realtà di un popolo che resiste all’invasione russa fin dentro il treno sovietico che sferraglia verso est al modo nostalgico di Goodbye Lenin piu che come un Orient Express.

Di fronte a questa consapevolezza, a questa forza, a questa tenacia, che cosa volete che sia trascorrere quindici ore al buio, con il cibo freddo portato da casa e gli interminabili controlli notturni alle due frontiere da sdraiati nelle cuccette made in URSS di una macchina d’acciaio e di ferro che la mollezza occidentale oggi immaginerebbe in disuso da tre decenni oppure come veicolo di altri viaggi forzati verso la Siberia.

A Kyjiv, i passeggeri sono accolti al binario da signori anziani con in mano i fiori da porgere alle figlie e alle nipoti in visita o di ritorno a casa, ma anche dalla sirena dell’allarme aereo e dall’invito pubblico attraverso gli altoparlanti a raggiungere il rifugio più vicino.

Nonostante ciò la gente cammina serenamente per strada, magari solo a un passo più spedito, e abbraccia i parenti e chiacchiera amabilmente con gli amici perché nelle chat dell’esercito su Telegram c’è scritto che l’allarme è scattato perché si è alzato il solito Mig russo in perlustrazione nei cieli non di sua competenza e che entro venti minuti sarà tutto finito.

La città dunque è viva, le strade sembrano quelle di una operosa città a metà strada tra l’Europa, che ancora non c’è pienamente, e il mondo sovietico che si è sgretolato, ma che è ancora visibile nei palazzoni brutalisti del centro che malgrado la loro tragica eredità conservano un macabro fascino.

Il paragone con Berlino est, con la Berlino est di molti anni dopo la caduta del muro, è banale ma veritiero. Poi però ci si accorge che la gente che passeggia sui larghi marciapiedi della capitale ucraina è quasi esclusivamente di genere femminile, come sul treno Chem-Kyjiv, salvo qualche ragazzino, qualche anziano e una poderosa fili di uomini all’ingresso di un edificio della polizia.

La vita continua, Kyjiv è aperta, intellettualmente viva, ogni sua singola pietra respira un febbricitante spirito rivoluzionario, come quello vissuto a Barcellona da George Orwell negli anni Trenta e immortalato in “Omaggio alla Catalogna”.

La guida turistica Yulia dice di non aver mai lavorato così tanto come adesso nella sua vita professionale, mentre è inebriante l’atmosfera nel ristorante “L’ultima barricata” che serve i piatti della tradizionale cucina locale in una specie di speak easy clandestino adornato di cimeli delle numerose rivoluzioni ucraine, da quella arancione a quella della dignità, il tutto a pochi passi da Maidan e dal mausoleo spontaneo in onore dei caduti nella guerra in corso.

Lo spirito di Kyjiv è quello di chi sa di essere sopravvissuto ai mongoli e agli zar, e anche all’Unione Sovietica, quello di chi sa che resterà anche dopo quest’altra campagna criminale russa. Uno spirito non diverso da quello dei romani che ne hanno viste passare tante nel corso di due millenni di storia e sanno che Roma ci sarà sempre e semmai saranno gli altri a sparire.

E infatti Kyjiv nel Medioevo è stata chiamata “la nuova Roma” e basta entrare nell’imponente cattedrale di Santa Sofia costruita nell’undicesimo secolo per toccare con mano una storia, quella della Rus’ di Kyjiv, che risale all’anno Mille quando a Mosca vivevano ancora sugli alberi. E poi bisogna visitare la tomba di “Jaroslav il saggio” per capire in modo inconfutabile che l’Ucraina è europea e non russa, visto che il principe di Kyjiv ha avuto tre sorelle che sono diventate regine di Francia, di Norvegia e di Ungheria e lui stesso ha sposato due figlie del Re di Francia.

Ma è l’incontro con Tata Kepler a scuotere la coscienza di un occidentale che vuole rendersi conto di che cosa sia Kyjiv oggi e conoscere che tipo di persone sono quelle contro cui si è messo Putin.

Tata Kepler è un’eroina dell’Ucraina, nota come “la regina dei soldati”, perché da una specie di atelier di moda trasformato in farmacia punk organizza la distribuzione di medicinali, di kit di sopravvivenza, e di tutto quello che serve ai soldati per sopravvivere in trincea e ai medici di prima linea per salvare le vite dei resistenti, compresa una serie di pantaloncini con apertura laterale – per facilitare i soldati feriti alle gambe – che mostrano la scritta «indistruttibili POHUY», traducibile dall’ucraino con «sticazzi» (rieccola «la nuova Roma»).

Tata risponde alle nuove richieste al telefono, gioca col cane che abbaia contro chiunque le si avvicini, scherza col tipico sarcasmo macabro degli ucraini, scrolla le foto dell’ultimo arto salvato il giorno precedente, mostra i cimeli dei missili russi che l’hanno sfiorata a Kramatorsk, dove è stata ferita a morte la scrittrice Viktoria Amelina.

E racconta di quando è riuscita con un post su Instagram a convincere le autorità ucraine a cambiare la denominazione sovietica dei morti in guerra rimasti anonimi, “cargo 200” (in America si chiamano «John Doe»), con «sullo scudo» riprendendo le parole “con lo scudo o sopra lo scudo”, torna a vittorioso o morto, che era l’ultima frase che le donne spartane recitavano ai propri uomini prima di vederli partire per la guerra.

All’ultima barricata, in attesa del lardo, del borscht e dei varenyky di carne o di porro, innaffiati dalle grappe locali, il filosofo Volodymyr Yermolenko definisce «coraggiosi» gli occidentali che sfidano la paura dei missili russi e vengono a mostrare solidarietà ai resistenti e ai rivoluzionari di Kyjiv.

Yermolenko sbaglia: i coraggiosi sono lui e gli intellettuali del Pen Ukraine e dell’Ukranian Institute che continuano a tenere alto il discorso pubblico in una società sotto attacco militare di una potenza straniera, mentre noi occidentali non possiamo far altro che accelerare la fornitura di tutto ciò che serve agli ucraini per vincere la guerra e poi guardarli con infinita ammirazione.

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