Pregiudizi da estirpareMaschio a chi? Il vino è anche femmina

Donne del vino, Sbarbatelle, Donne in vigna. Sono tante le associazioni di produttrici, ristoratrici, enotecarie e sommelier che declinano al femminile una professione tradizionalmente patrimonio degli uomini

Foto di Ana Gabriel su Unsplash
Foto di Ana Gabriel su Unsplash

L’abbiamo sentito per i vini robusti, tanninici, dal corpo spesso e astringente. Per quelli scuri e avvolgenti, che si prendono la scena al primo sorso. Per loro, l’apposizione è designata: maschio. L’associazione è quella di una fisicità piazzata. A volte di un atteggiamento rude, senza compromessi. Idealmente opposto a caratteristiche più fruttate, leggere e armoniose. Alle quali, però, non viene mai accompagnato il termine femmina. Sembra un’inezia, invece il passaggio dal parlato al considerare il vino come “gioco da uomini” è stretto, truffaldino, e le più volte intrappola: enologo, viticoltore, produttore di vino. Non importa la parola, sarà sempre declinata al maschile.

Eppure le donne impegnate nel vino, in Italia, non mancano. E sono protagoniste di eventi, gruppi e associazioni che cercano di rimestare nelle acque del sistema. Per modificare, innanzitutto, la percezione del vino come un affare per soli maschi. E produrre bevute che parlano di territorio e passione.

Il nome storico, e fondamentale, è quello dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino, fondato nel 1988 su iniziativa della produttrice Elisabetta Tognana e, oggi, maggiore associazione al mondo di donne impegnate nella filiera del vino con 1080 associate tra produttrici, ristoratrici, enotecarie, sommelier, giornaliste ed esperte di vino in tutta Italia. La missione: promuovere la conoscenza e la cultura del vino attraverso il contributo di esperienze e conoscenze di donne impegnate in settori diversi, ma complementari. Tra i progetti organizzati: le Giornate delle Donne del Vino, il ricettario Le Ricette del Vino – per abbinamenti da manuale – e il Progetto Future, una serie di attività formative gratuite rivolte alle giovani donne Under30 che guardano al vino come proprio futuro professionale.

Ma rivolto alle più giovani è anche Sbarbatelle, evento di Associazione Italiana Sommelier (Ais) Piemonte nato nel 2017 e giunto, quest’anno, alla sua sesta edizione. Ideato da Paolo Poncino, delegato Ais per la provincia di Asti, Sbarbatelle è il primo evento che unisce Youth, Wine & Passion e che è interamente dedicato alle giovani produttrici italiane e ai loro vini. Una questione di cuore, dunque, nata dalla volontà di riconoscere e portare alla ribalta il lavoro eccellente delle giovani promesse di un settore tra i più tradizionali del panorama enogastronomico dello Stivale.

Il nome è già tutto un programma: è infatti un gioco di parole su barbatella, piantina di vite pronta a crescere e “barbuta”, ovvero a cui siano cresciute radici per inserirsi nel terreno e cominciare il suo viaggio tra grappoli e cantine. La barbatella è la fase uno della costruzione di un nuovo vigneto, tralcio di una pianta matura staccato dalla madre affinché impari a camminare da sola. Il Dna, però, è lo stesso, e spesso parla di eccellenze e lunghe storie famigliari. Per questo, allora, Sbarbatelle: un nome giocoso, che racchiude sia la giovane età che la forza dirompente delle protagoniste dell’evento.

«L’idea per Sbarbatelle è venuta da un’osservazione semplice: nei vari eventi e corsi organizzati da Ais Piemonte, le ragazze si dimostravano molto più curiose dei colleghi maschi, molto più volenterose di imparare. Poi facevano gruppo, si confrontavano sulle rispettive attività e si frequentavano anche fuori dal lavoro, insomma, era diventata anche una questione di amicizia. Così abbiamo pensato che fosse giusto dedicare uno spazio a questa nuova energia. Soprattutto in un ambiente come quello del vino, che negli ultimi anni è molto cambiato ma in cui rimane, ancora, un pregiudizio immotivato a favore degli uomini».

Paolo Poncino racconta del passato, ma le prospettive più elettrizzanti, per Sbarbatelle, provengono dal futuro. Basti pensare che l’edizione 2023, tenutasi gli scorsi 25 e 26 giugno alla Tenuta Marchesi Alfieri di San Martino Alfieri (in provincia di Asti), ha visto partecipare il numero record di ottanta produttrici.

«Il primo evento era riservato solo alle produttrici piemontesi, si erano registrate una quindicina di partecipanti. Il successo è stato però immediato, c’era tanta voglia di riunirsi attorno al vino in questo modo. Così pian piano siamo passati a trenta, poi sessanta e infine ottanta partecipanti. Tra degustazioni ed eventi tematici, Sbarbatelle è molto più della classica fiera dove si va per scoprire qualcosa di nuovo. La storia che raccontiamo è tutta in una chiave diversa».

Per unirsi alle Sbarbatelle i requisiti sono pochi, però precisi: bisogna essere attivamente coinvolte nella produzione dell’azienda e far parte della proprietà; bisogna, di preferenza, avere un’età inferiore ai 35 anni.

«Siamo sempre felici di valutare eccezioni caso per caso. La scelta di rivolgerci a un pubblico di giovani, però, è programmatica. Non volevamo andare a battere lo stesso terreno di altre realtà o associazioni già presenti. Inoltre, per ora non siamo un’associazione. È una cosa su cui le partecipanti stanno riflettendo. Il nostro gruppo è più ampio dei numeri dell’evento, che avviene una volta all’anno. Contiamo circa 130/140 contatti. Le esplorazioni sono sempre aperte. Ora siamo, diciamo, un movimento. E siamo arrivati a coinvolgere produttrici di quasi tutte le regioni d’Italia, non importa lo stile del vino o la tipologia, non importa quale sia il percorso di ognuna. Sbarbatelle è un progetto costruito attorno alle persone perché sono le persone a fare il vino».

Persone prima del vino, dunque, unite in un sistema di affinità elettive. Lo stesso sentimento che ha portato alla creazione del gruppo della Donne in Vigna, riunione d’anime che vede protagoniste quattro aziende della Tuscia e le rispettive produttrici: Vigne del Patrimonio, Terre di Marfisa, Le Lase e Vini Pacchiarotti. Al contrario delle Donne del Vino, Donne in Vigna non è un’associazione, bensì un contratto di rete, attraverso il quale «più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato» (secondo il Decreto Legge 10 febbraio 2009, n.5).

«Siamo partite da interessi comuni, e da una visione condivisa nell’interpretare la professione che ci siamo scelte: quella delle produttrici di vino. Gli altri strumenti giuridici a disposizione per ufficializzare la nostra collaborazione ci parevano poco adatti, e quindi abbiamo optato per la rete, che permette alle singole aziende di mantenere le proprie individualità inserendole in un progetto più grande. Così siamo diventate un fenomeno piuttosto originale. Sia nel panorama enogastronomico italiano, dove i vini della Tuscia fanno ancora fatica a emergere. Ma anche perché spesso uno pensa alle associazioni di attività imprenditoriali sempre a fine di lucro. Noi, invece, abbiamo fatto il giro inverso: abbiamo deciso che ci vogliamo sostenere, e in questo, naturalmente, rientrano anche la partecipazione congiunta a eventi o altre attività di settore. E ci notano sempre. Quando le donne si uniscono nello spirito della collaborazione, risaltano».

A parlare è Rosa Capece di Vigne del Patrimonio. I suoi vigneti si trovano a Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, e tramandano il territorio già dal nome, che fa riferimento al nome storico con cui l’attuale provincia di Viterbo fu conosciuta fino all’Unità d’Italia: Provincia del Patrimonio di S. Pietro.

«Siamo aziende piccole, tendenzialmente con pochi ettari di terreno coltivato, e geograficamente riempiamo la stessa zona. In Tuscia, e nella Tuscia viterbese in particolare, la terra cambia repentina. C’è il vigneto più esposto al mare, quello radicato su un territorio argilloso, e poi ci sono le origini vulcaniche del lago di Bolsena che scorrono nelle vene di tutti i nostri vini. Il nostro punto di forza è riuscire a dare espressioni diverse del territorio, questo ci rende uniche. E poi, naturalmente, c’è la componente di femminilità».

Ecco, il femminile, forse opposto al “maschio” precedente. Se c’è un modo in cui il femminile alla base di Donne in Vigna viene a galla, questo è, secondo Rosa, la cura. Per i dettagli, per la presentazione delle etichette, per l’ordine e la pulizia che deve sempre regnare nelle cantine e negli spazi delle aziende. Poi, però, si sale sul trattore e si lavora nei campi.

Anche secondo Giada Ceccarelli di Le Lase, fondata nell’antica campagna etrusca di Orte e che dalle divinità etrusche dell’ingegno prende il nome, questi sono i punti di forza maggiore della “femminilità” applicata al vino. «Molti dicono che i vini prodotti da donne, o seguiti da enologhe, siano più eleganti. Può essere, non è sempre vero. Il vino è una cartina tornasole, porta in sé tutti i passaggi del lavoro svolto, dal campo alla cantina. Ed è imparziale, perché se si è lavorato bene, rispettando il territorio, allora il vino lo dimostrerà. Spesso si tende a dimenticare che il vino si fa sul campo, non in cantina. In cantina si può aggiustare qualcosina, ma non si fanno miracoli. Le Lase è composta da quattro sorelle, gestiamo tutti gli aspetti della produzione. Quello che posso dire è che, se c’è un tocco femminile anche nel vino, da noi lo ritrovo nel rispetto, e nell’esaltazione, delle caratteristiche del territorio. Per esempio, la nostra produzione di Chardonnay esce fruttata, ma non burrosa. E usiamo il legno solo per due dei nostri rossi, che altrimenti arriverebbero troppo verdi e spigolosi».

“L’eleganza” del vino è messa in risalto anche da Nathalie Clarici, titolare delle Terre di Marfisa, che oltre azienda vitivinicola è anche produttrice di olio d’oliva e struttura ricettiva con dodici camere a disposizione. «Credo che la presenza delle donne in cantina abbia portato più eleganza al vino. Per fortuna siamo sempre di più anche oltre la produzione, qualcosa sta cambiando. I rapporti con i distributori e con i ristoratori però non è sempre semplice. Questo è quello che dispiace, specie se uno, come me, il vino lo fa soprattutto per passione. Anzi, no, per amore. Poi diventa un lavoro, certo, però la mia storia nel vino è iniziata proprio dall’amore. Prima è stato quella che la mia famiglia ha sempre avuto per l’area di Farnese, nel territorio dell’Alta Tuscia viterbese. A quella zona erano legati i ricordi delle vecchie vigne dei miei nonni, le vendemmie fatte con loro è come se fossero ieri. Questo, dicevo, è stato il primo amore. Il secondo innamoramento per il vino è stato quando, dopo che avevamo avviato le operazioni dell’azienda, ho assaggiato un sorso del primo mosto uscito dalla pressa. Lì è cambiato tutto. È stato quattordici anni fa, e il sentimento continua».

Vini minerali e sapidi, quelli di Terre di Marfisa, i cui ettari si trovano all’interno della caldera di Latera, a soli trenta chilometri in linea d’aria rispetto al mare. Prodotti non ovvi da raccontare, ma anche in questo le Donne in Vigna vengono in soccorso, con il sorriso e la rivoluzione gentile che hanno portato in Tuscia. «La bellezza del nostro gruppo è che è nato dall’empatia, dal riconoscere valori comuni. Ora siamo amiche oltre che colleghe, e agli stand delle fiere, per esempio, lo riconoscono benissimo, che siamo un gruppo affiatato. Ci facciamo forza, e allo stesso tempo riusciamo a presentare meglio i prodotti di ognuna, che descrivono diversi aspetti di una stessa terra».

Ma le piccole rivoluzioni delle Donne in Vigna non finiscono qui. Sempre Capece, per esempio, ne guida una dalle Vigne del Patrimonio, producendo metodo classico in un territorio in cui lo spumante non è esattamente tipico. Anche se la maggiore, forse, è dare corpo e seguito al lavoro di campagna, a contatto con la terra. Tramandando saperi, mestieri, e cultura.

«L’agricoltura è difficile, nessuno lavora la terra per guadagnarci. Eppure è fondamentale, non solo per il vino ma per tutta la filiera alimentare, ed è assurdo che venga relegata a lavoro di bassa manovalanza. Un lavoro d’ufficio è più comodo, su questo non si discute. Ma tante di noi provengono da lavori diversi, spesso appunto da scrivania, svolti per anni senza legare valore al tempo che vi si impiegava. A un certo punto abbiamo capito che questo non ci bastava più. Per noi, terra significa valore e cultura. Comunicare quest’importanza è fondamentale soprattutto perché siamo donne, e spesso i colleghi uomini non ci prendono sul serio come produttrici di vino. Invece fa tutto parte dello stesso mondo».

Donne in Vigna, insomma, è anche questo. Una strada per rendersi più forti, insieme, e sfatare la narrazione del “vino fatto dagli uomini, fatto dalle donne”. Una realtà preziosa, che va ad aggiungersi a compagne d’eccezione.

«Abbiamo scoperchiato un vaso. Il percorso sarà lungo, ma sappiamo che siamo insieme. E questa è tutta la forza che ci serve».

Chissà per quanto ancora diremo che un vino è “bello maschio”. La lotta per parole nuove è sempre impervia. Dalla cima, però, si vede un mondo rifatto da capo.

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