Ogni metamorfosi ha un prezzo. Quella che sta tentando di fare Giorgia Meloni potrebbe rivelarsi dannosa, perfino disastrosa, se rimarrà impantanata in una terra di mezzo e di nessuno. Non sappiamo se si tratti di una transizione autentica o di una condizione necessaria. Se sia una nuova via verso la destra europea senza ormeggi a Est. O se sia invece una camicia di forza, una maschera che Meloni indossa per guidare un Paese del G7 con un enorme debito pubblico, allungato nel Mediterraneo, impegnato nelle retrovie di una guerra. Propendiamo per la seconda ipotesi.
Nell’uno e nell’altro caso, l’impressione netta è che le condizioni politiche generali in cui agisce la catena di comando molto corta in mano alla premier non le consentano di lanciarsi in grandi progetti politici e culturali. Al di là della sua stessa volontà, il rischio (soprattutto per l’Italia) è di dover inseguire le varie emergenze che non gravano solo sul nostro Paese. Meloni dovrebbe attrezzarsi adeguatamente con una squadra di governo più robusta e sperare che le gelosie nella sua maggioranza, generate dal forte accentramento di potere, non le esplodano in mano.
La politica vissuta al potere, non nelle piazze, è una brutta bestia. Può offrire opportunità concrete di crescita e di cambiamento o soccombere alla vanità provinciale e identitaria che incatena al passato. Può far impazzire e far perdere tutto in un breve lasso di tempo o far maturare la consapevolezza autentica che bisogna stare con i piedi ben piantati per terra, come la stessa premier ha detto al Consiglio dei ministri del 28 agosto 2023.
Nel preparare la sua squadra alla manovra economica, Giorgia Meloni ha la consapevolezza della congiuntura economica difficile e della necessità di superare la spesa grillina del superbonus edilizio e del reddito di cittadinanza. Affiorano sulle labbra della leader di Fratelli d’Italia parole e concetti inimmaginabili fino al momento della vittoria elettorale del 25 settembre del 2022: austerità, rigore, equilibrio del bilancio dello Stato. Poi si preoccupa di spalmare miele sull’angoscia dei suoi elettori, assaliti dal dubbio che lei non sia più la stessa persona che hanno votato. E per questo parla di rottura dello status quo ereditato.
Credere o no a questa metamorfosi è pressoché inutile. Accusare Meloni di essere sostanzialmente rimasta una fascista, preoccupata di rincorrere a destra Salvini, senza i freni moderati di Berlusconi, è un esercizio di stile che scalfisce di un nonnulla il suo consenso. Tantomeno quello complessivo del centrodestra. Più interessante è capire quanto il bagno di realtà sia più potente della sua stessa volontà di non farsi risucchiare da quello che lei definisce mainstream, pensiero unico, omologazione nell’indistinto politico.
È presto per un giudizio definitivo: non è pronta lei e non è pronto il carrozzone che si tira dietro. È facile urlare da sopra una barricata del tre per cento. Imbarazzante se sei seduta su un trenta per cento e attorno a un tavolo con Biden e Xi Jinping. Rimanere avvolta nella sua copertina di Linus dentro i confini italiani e di partito, mentre all’estero parla in inglese come una statista, è una dissociazione politica che Meloni non potrà reggere a lungo. Soprattutto se dovrà fare presto i conti con quei partiti europei e leader di governo di una destra che non ha mai avuto paura di reggere il potere comunitario insieme con la sinistra.