Sognare è possibileLa cultura può ancora essere strumento di emancipazione

Nel suo ultimo libro “La rivoluzione del merito” (Rizzoli), Luca Ricolfi spiega perché la scuola che premia l’eccellenza, dimenticando gli ultimi, non è una palestra di democrazia

A voler riassumere in breve, questi sono i punti principali sui quali si fonda la battaglia contro il merito: talenti e capacità non sono meritati, chi li possiede è un privilegiato; i meritevoli non hanno veri meriti perché nessuno è in grado di raggiungere il successo senza il supporto degli altri (dunque non ha alcun merito speciale); premiare il merito equivale a premiare gli “ereditieri”, ossia “coloro che già in partenza hanno competenze linguistiche e rapporti con la cultura per origini familiari”, quindi non si fa altro che ribadirne i privilegi a discapito di chi non li ha; premiare il merito umilia i non premiati, sottoponendoli al confronto con i premiati; il merito è un concetto che esclude invece di includere; ribadisce e accentua le diseguaglianze invece di eliminarle; non si occupa dei non meritevoli, dei disagiati, degli ultimi; una scuola che premia il merito non è palestra di democrazia, ma disattende il suo compito primario: formare il cittadino, educare alla cittadinanza e non certo all’eccellenza.

Sono rimasto incredulo di fronte a questo muro compatto senza brecce, senza la luce di un pur minimo dubbio. Echeggiavano dentro di me le nobili parole della Costituzione italiana, che all’articolo 34 (comma 2) stabilisce:

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

E subito dopo, al comma 3, impegna lo Stato a istituire borse di studio per le ragazze e i ragazzi capaci e meritevoli ma di umili origini. […]

Come è possibile che oggi il merito sia sotto attacco? Che cosa c’è di così nefasto nel concetto di merito? Perché tante menti brillanti si esercitano senza posa per squalificarlo? Come è possibile che, in un mondo che si affanna ogni giorno a soddisfare anche le più piccole e discutibili domande di riconoscimento, l’unica domanda di riconoscimento che non ha cittadinanza sia quella del merito? […]

Di qui il mio sconcerto, di persona che ha sempre creduto nella cultura come strumento di elevazione e di emancipazione, di fronte al fuoco di sbarramento che una parte così cospicua del mondo progressista sta alzando contro il merito.

Come spiegare tanta ostilità? Come spiegare le ripetute e ribadite riserve contro l’articolo 34 della Costituzione?

La prima cosa che viene in mente è il riflesso condizionato, il cane di Pavlov. Qualcuno deve aver pensato: se una cosa la dice un governo di destra, non può essere buona, dunque se il merito piace alla destra, il merito dev’essere una cosa cattiva.

Il secondo pensiero che ho avuto è che, negli ultimi decenni, alcune delle migliori idee della sinistra, in particolare la libertà di espressione e la difesa dei deboli, erano migrate a destra. E mi sono chiesto se un’altra idea, quella di emancipazione attraverso la cultura, fosse a sua volta in procinto di cambiare campo. Forse è precisamente questo che sta succedendo: se non credi più, come credevano Gramsci e Togliatti, nella cultura come strumento di emancipazione ed elevazione degli strati popolari, allora puoi anche sbarazzarti del merito. Ossia dell’unico strumento che chi sta in basso ha per sfidare chi sta in alto.

Poi però mi è sorto il dubbio: siamo sicuri che sia tutto lì? Siamo sicuri che il ripudio del merito sia una mossa occasionale, un mero fallo di reazione del mondo progressista dinanzi all’appropriazione del termine da parte della destra? O c’è invece qualcosa di più profondo, un fiume di pensieri che vengono da lontano, e solo ora trovano la forza per manifestarsi esplicitamente, spudoratamente mi viene da dire, in tutta la loro forza e in tutte le loro implicazioni? Se è stata sufficiente la ridenominazione di un ministero a scatenare le critiche, non sarà che il sospetto verso il merito ha origini remote?

In fondo, se basta un po’ di pioggia a far spuntare una foresta, qualcuno deve avere seminato prima. E se basta un fiammifero a far divampare le fiamme, forse il fuoco covava sotto le ceneri.

Ecco, allora, quel che dovremmo fare. Scavare all’indietro, alla radice delle idee che oggi assediano l’idea di merito. Per capire come sono andate le cose. Per capire, ad esempio, come mai l’articolo 34 della Costituzione è ancora sostanzialmente inapplicato. Sono passati quasi ottanta anni da quando fu scritto, eppure siamo ancora lì. Perché?

Ripensando alla nostra storia, l’idea che, poco per volta, mi si è andata formando nella mente è che – alla radice – vi sia anche la nostra incapacità di fare i conti con la diversità, con le differenze nei piani di vita di ciascuno. Un’incapacità che è un limite nostro, della cultura e della politica italiane, imbevute di vittimismi e di risentimenti di ogni specie: abbagliati da una falsa idea di eguaglianza, non siamo in grado di accettare la variegata molteplicità della natura umana, e tanto meno di considerarla una ricchezza per tutti.

Ma è anche il frutto, quella incapacità, dei termini nei quali, nelle società occidentali, il problema dell’uguaglianza è stato posto. Se oggi è così facile attaccare il merito, se oggi il sogno dei Padri costituenti giace ancora nel cassetto, è anche perché, da Rawls in poi, i filosofi e gli economisti hanno posto il problema in un modo che lo rende irrisolvibile, o risolvibile solo edificando una società distopica.

Eppure quel sogno non è irrealizzabile. Si tratta soltanto di liberare il merito dalle catene che, in tutti questi anni, gli sono state messe addosso. E noi possiamo farlo, nel nostro piccolo, prendendo sul serio la lezione dei Padri costituenti, partendo precisamente dalle ragazze e dai ragazzi capaci ma «privi di mezzi». Una piccola rivoluzione. La rivoluzione del merito.

Estratto da Luca Ricolfi, “La rivoluzione del merito”, pp. 216, euro 18, in libreria per Rizzoli

L’autore presenterà il libro al festival Pordenonelegge venerdì 15 settembre alle ore 21, in dialogo con Roberto Papetti.

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