Nelle prossime settimane il governo dovrà pubblicare la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza. Tale documento fornirà le coordinate macroeconomiche e le priorità politiche alla base della legge di bilancio. Diversamente dall’anno scorso, quando il governo si insediò a sessione di bilancio già iniziata, questa volta Giorgia Meloni ha il pieno controllo sul provvedimento. È nella legge di bilancio che un governo può lasciare un segno sul Paese. Per questo, tipicamente ministri e partiti tendono a caricarla a più non posso, trovando spazio per ciascuno dei gruppi sociali che a essi fanno riferimento.
Non è uno scandalo, è la politica. E tuttavia è proprio qui che si vede la differenza fra chi pensa solo alla prossima scadenza elettorale e chi sa guardare più in là, dimostrando di avere un progetto che abbraccia almeno una legislatura. Questo è paradossalmente tanto più vero quest’anno, in una situazione oggettivamente difficile. La Nadef dovrà prendere atto del complicarsi della situazione economica generale.
La spinta del rimbalzo post-pandemico si è esaurita, l’inflazione resta elevata, la Germania è già in recessione e il bilancio pubblico lascia ben pochi margini di manovra a causa degli sperperi degli scorsi anni. Il debito buono sempre debito è e in Italia ci stiamo ormai dirigendo verso i duemilanovecento miliardi di euro che solo i più miopi e i più spregiudicati possono fingere non rappresentino un problema. In questo contesto, la presidente del Consiglio ha scarsi margini di manovra.
Dando per scontato che vorrà confermare il taglio del cuneo per i redditi medio-bassi, le risorse a disposizione per perseguire altri obiettivi saranno estremamente limitate. Certo, il governo potrebbe essere tentato di distribuire mancette secondo la logica dell’accontentare tutti scontentando ciascuno. Il beneficio di consenso di breve termine, però, farebbe giustizia di ogni rimanente illusione circa i progetti di lungo termine del centro-destra.
In campagna elettorale, le forze dell’attuale maggioranza hanno puntato molto su una riforma fiscale dirompente. Non si può fare? Si potrebbe, ma al prezzo di tagli significativi e ponderati alla spesa pubblica. Che il governo non sembra intenzionato, o perlomeno pronto, a fare. In questa condizione la legge di bilancio dovrebbe essere almeno l’occasione per un discorso di verità.
La presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia spieghino che la riforma fiscale è un progetto di lungo termine e che va di pari passo col ridisegno delle funzioni dello Stato e, quindi, della spesa pubblica. Che proprio per questo non vale la pena di lanciarsi in nuove spese fiscali e nemmeno in ridisegni parziali e abborracciati del fisco. Che per preparare il terreno a una riforma importante, ogni tanto la cosa più importante da fare è studiare, attendere e cercare, almeno, di non fare danno.
Nel passato i governi hanno gonfiato a dismisura le dimensioni delle leggi di bilancio, come se il numero di miliardi movimentati fosse un indice di qualità della manovra. Non è così, anzi spesso è vero il contrario. Proprio l’esperienza recente, a partire dal Superbonus, dimostra che spendere troppo in maniera scriteriata finisce per creare una situazione da cui è difficile tornare indietro, con tutti i guasti e i vincoli che stiamo vedendo e di cui il ministro Giancarlo Giorgetti è consapevole. La prima spending review è resistere alla tentazione di aumentare la spesa e creare nei conti quei cuscinetti che possono consentire di reggere meglio alle fasi negative (e l’aumento dello spread osservato in questi giorni è solo un primo avviso).
Le pressioni sul governo Meloni ovviamente non sono diverse da quelle sui precedenti. Ogni gruppo di persone, legittimamente, chiede qualcosa al governo. Dalla capacità di dire «no» si vedrà il profilo di questo governo.