Io sono burro caldo che si sciolgie in una tortilla di farina lasciata sopra il lavello della cucina nel giorno più caldo dell’estate. Io sono un anguria spaccata, con il mio cuore svuotato a cucchiaiate e i miei succhi che scorrono lungo il mento di un uomo bruno a torso nudo. Io sono una pista da ballo nell’oscurità in cui vengono pompati beats incalzanti che ti colpiscono sul torace come un dio azteco o il dj Eli Escobar. Io sono tatuato con storie della mia famiglia e del Cattolicesimo, che mi tengono con i piedi per terra in ogni momento. Io sono tristezza e sono speranza. Io sono noi e noi siamo tutti. Noi siamo amanti e bambini e respiriamo e sorridiamo quando il sole colpisce i nostri volti. Noi siamo meritevoli di ricchezza, di splendore e di un partner con cui condividere la gioia di invecchiare. Inoltre, e questa è la cosa più importante, noi siamo sia le comunità che ci hanno cresciuto sia le comunità che ci sono state affidate. Nel mio lavoro di designer tengo sempre ben presente questo concetto.
Io sono un creatore di moda e vedo una correlazione diretta tra quello che indossiamo e il modo in cui vogliamo essere percepiti. Anche se per alcuni è più ovvio che per altri, a definire il nostro rapporto con il resto del mondo è il “senso di sé” che ciascuno di noi ha. E lo stile gioca un ruolo significativo in questo processo. Per molti versi, è questo il motivo per cui compriamo e consumiamo vestiti.
Tuttavia, non possiamo separare quel “senso di sé” che ciascuno di noi ha (e il modo in cui esso si presenta) dal luogo da cui veniamo o dal posto in cui ci troviamo ora. La moda è percezione e la percezione deriva dalle nostre esperienze. Non sarei la persona che sono oggi senza le varie comunità che hanno plasmato in modo unico il mio “senso di sé” personale e quello collettivo. Come storyteller che usa la moda come mezzo di comunicazione, definisco la bellezza moderna come resistenza, resilienza e speranza, incorporando il mio passato e il mio presente nei miei modelli.
Io sono un prodotto diretto della fine della segregazione nata dal movimento per i diritti civili, che ha fatto sì che mio padre, messicano, e mia madre, irlandese-americana, frequentassero la stessa scuola superiore. I miei familiari sono stati fondamentali nel formare la mia comprensione del perché le cose sono come sono e del modo in cui ci si è arrivati. Hanno ritenuto importante insegnarmi chi sono stati Malcolm X, César Chávez, Dolores Huerta, Angela Davis e Corky Gonzales. E mi hanno trasmesso informazioni sulla colonizzazione, sul genocidio, sulla schiavitù, sui campi di detenzione e sulle leggi Jim Crow. Sono quindi cresciuto ben consapevole della dura realtà, per non dire di peggio, e dei pregiudizi razziali ed economici. Sono stato fortunato ad avere il sostegno della mia famiglia mentre cercavo di dare un senso al mondo che mi circondava. E, anche se il mio amore per il design non era nei loro programmi, ho scoperto in seguito che si trattava di un elemento importante del romanzo.
Da ragazzino trascorrevo molto tempo da solo con i miei pensieri ed ero sempre affascinato dal modo in cui si vestiva la gente. A lasciare l’impronta più profonda sulla mia psiche fu ciò che scoprii riguardo agli Zoot Suit Riots, i disordini avvenuti quando, negli anni Quaranta, alcuni soldati bianchi attaccarono uomini e donne afroamericani o comunque un po’ scuri di pelle perché indossavano, appunto, degli zoot suits, ovvero uno stile di abbigliamento “sovversivo” per via delle dimensioni particolari. Potrei addirittura dire che i pantaloni a tripla piega e il taglio sartoriale voluminoso degli zoot suits, insieme alla loro storia, sono ciò che mi ha portato sulla mia strada attuale.
Questa estetica incredibile mi ha colpito profondamente, non solo per la sua capacità di occupare spazio attraverso la silhouette e lo stile, ma anche perché era capace di esprimere, da un punto di vista sostanzialmente visivo, delle potenti dichiarazioni politiche. Gli zoot suits riuscivano in qualche modo a manifestare chi fossero (e avrebbero potuto essere) le persone che li indossavano, anche se in modi contraddittori, per i diversi corpi che le indossavano e per l’opinione pubblica in generale.
Gli zoot suits servivano per rimarcare un’identità e per esortare a un dialogo complesso sulle differenze sociali e sul senso di sé, tra le altre cose. Quando mi sono reso conto di questo, ho compreso fino in fondo quanto siano politiche le scelte sull’abbigliamento per coloro che possono concedersi il lusso di scegliere che cosa indossare.
In una condizione moderna che ha una forte carica emotiva e politica, il modo in cui ci vestiamo, in cui presentiamo noi stessi, parliamo e creiamo moda determina un obiettivo umano. E, dal momento che certe persone continuano ad attaccare i neri, le persone di pelle scura, le persone queer e trans, i musulmani, i sikh e gli appartenenti ad altri gruppi per il loro “senso di sé”, diventa ancora più importante mostrare il nostro “sé” autentico attraverso la moda.
Detto questo, l’industria della moda è pronta al cambiamento – anzi, lo implora. E io sono qui per mostrare un nuovo tipo di bellezza: la nostra bellezza, che si esprime attraverso di noi. Con le mie creazioni, sto aprendo una strada più inclusiva per tutti, elevando di proposito la percezione esterna e quella interna di noi stessi. Dal mio punto di vista, non sto vendendo cultura simulando di aiutare le persone meno fortunate per favorire in realtà un grande brand. Piuttosto, mi sto impegnando avendo come obiettivo un grande cambiamento, che vada oltre la superficie di ciò che la moda apparentemente offre.
Il creare vestiti è la mia abilità più innata. Infondere un respiro profondo in un abito di raso sembra la scena di un film: questo è il mio cuore. Costruire un’organza di seta che cade a cascata sulle spalle o un punto vita teso sopra l’ombelico con una gamba dritta stirata che termina alla caviglia: questo è ciò che mi fa respirare.
Ma «il capitalismo è senza cuore». Questa affermazione è ricamata su una piccola etichetta verde in alcune delle mie collezioni di abbigliamento sportivo e serve come promemoria perché non ci si dimentichi di ritagliare uno spazio per coloro che sono rimasti indietro e sono ai margini del potere globale. La moda americana è un’industria ipercapitalista, ma sono i difetti del capitalismo a permettere l’esistenza del mio obiettivo in questo settore.
Sono uno stilista che ha avuto la grande fortuna di poter imprimere la sua particolare individualità in quello che ha disegnato e che ha potuto creare degli abiti seguendo più la sua pancia che i fogli su cui vengono calcolati i costi e i benefici. Sono una stilista che ha una passione inesauribile per l’eccellenza del design e che è talmente innamorato della possibilità di creare abiti da riuscire a bilanciare il dolore e le difficoltà che si accompagnano a questa professione. E sono anche uno stilista che chiede di rivedere le nostre priorità culturali e che ricorda come tutti noi, indipendentemente dallo status sociale, dalla razza o dall’etnia, siamo bellezza e dignità.
È stata la famiglia che mi ha cresciuto, insieme alla bellissima famiglia che mi sono scelto io, composta di brillanti creativi, a plasmare la persona che sono. Tutti loro mi hanno ispirato a essere grande, perché credono che tutti noi siamo grandi. Con tutto l’odio e le cose negative a cui siamo esposti, è importante per noi apparire e sentirci bene così come siamo. Noi siamo buoni. E non dovremmo mai dimenticarlo.
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