L’ideale trilogia sul Novecento che Viola Ardone inaugura con “Il treno dei bambini” e prosegue con “Oliva Denaro” si chiude con l’arrivo in libreria del suo ultimo romanzo: “Grande Meraviglia” (Einaudi). È un cerchio coerente, il suo, popolato da elementi che si rincorrono in tante similitudini, supportato da una lingua lieve e ricca di grazia che l’autrice affina e stravolge, ma sceglie di non tradire.
L’universo è ancora una volta composto da due linee parallele che, grazie al sortilegio della letteratura, riescono a intersecarsi. La prospettiva del singolo, il destino di dolore e di rinascita, oppure quello di un impegno civile, che l’autrice consegna ai suoi protagonisti, ha la forma di una retta. La Storia e la memoria comune ricostruita a partire da una precisa angolazione, anche.
Procedono dritte, queste due rette, eppure finiscono presto per influenzarsi a vicenda. L’arco narrativo si allunga dal 1972 fino quasi ai nostri giorni, procedendo all’indietro per rimontare i tasselli mancanti della vicenda, e in avanti, fino a seguire le conseguenze del seme d’ingiustizia che venne piantato nella vita d’una donna colpevole solo di adulterio. Mutti, la madre della protagonista, venne allontanata dalla libertà col favore di una società feroce, internata e costretta a restare fra quelle mura pur di non perdere la figlia che aveva partorito.
Manicomi che avrebbero dovuto essere stati chiusi, almeno quando la piccola Elba comincia a crescere, messi fuori legge sotto la spinta di una rivoluzione combattuta per rompere l’argine, a volte medico, a volte arbitrario, che ha messo al confino chi era affetto da una patologia mentale. Manicomi che in pratica, nonostante Franco Basaglia, sono ancora lì. La legge ne vieta l’esistenza già quando Elba, allevata dietro le sbarre simboliche di uno spazio a precluderle la vita, continua ad aggirarsi fra le mura dei reparti. E come quelle mura, esistono ancora abusivamente l’elettroshock selvaggio, le camicie di forza, il coma insulinico, le contenzioni meccaniche praticate in modo prolungato.
Elba vede tutto dal di dentro, immersa sotto la superficie di una preclusione che non riconosce come tale. Non ha mai visto ciò che si muove oltre i cancelli del manicomio che lei chiama: casa, e il suono sconosciuto della libertà a volte ha il timbro di un richiamo, ma altre è uno strepito di paura.
Un ingranaggio più grande e più forte di lei, ha deciso di toglierle tutto, ma c’è una cosa di cui i bambini, neppure se vittime d’ingiustizia, non possono essere privati: la fantasia. E allora, nel suo lessico segreto, il manicomio diventa il mezzomondo.
La vita scorre nella noia di giornate tutte uguali, ma almeno riesce a tramutarsi in versi dalla rima baciata, filastrocche che ci restituiscono il cinismo di un destino segnato per sempre attraverso un suono lieve, infantile, ma non per questo meno struggente. Sul Diario dei malanni di mente, Elba appunta pensieri, impressioni e regole di vita, la sua, così distante da quella di una qualsiasi bambina, un’esistenza schiacciata dall’ottusità di chi avrebbe dovuto prendere in carico il suo futuro, lo Stato, ma non lo ha fatto; di chi dovrebbe ora tutelarla, medici suore e infermiere, ma non lo fa. Carta e penna: ed eccola tratteggiare il ritratto delle nuove arrivate e assegnare a chi si muove attorno a lei, in quella minuta porzione di mondo, un nome. Ci sono i medici Colapesce e Lampadina, c’è l’infermiera Gilette e c’è Nana, un cane inconsolabile che ha perso i propri cuccioli.
È la lingua che Viola Ardone sceglie ed assembla a infondere un velo di grazia anche là dove di grazia non ce n’è. Almeno fin quando non fa il suo ingresso in scena il dottor Meraviglia, che si mette in testa di rispettare la legge e di tirare Elba fuori di lì. È ora che il romanzo si apre nella traiettoria del tempo, che scorre fino ai nostri giorni, e dello spazio, che rompe le barriere di mezzo mondo e catapulta Elba in mezzo agli altri, in una casa borghese che le appare sconfinata, e addirittura in una famiglia. Il dottore l’ha scelta come figlia, e così facendo s’illude di non ripetere gli sbagli commessi coi suoi figli biologici. Sogna un futuro di ricompense per Elba, e sogna la rivincita. Ciò che il dottore non comprende è che, a differenza dei mica-matti, i pazzi – veri o presunti – sono nudi con la loro verità e non basta un abito nuovo a coprire e riscaldare quel grumo di dolore non più in mostra. Il dolore di Elba continua a chiamarsi Mutti, sua madre, internata perché adultera e adesso ridotta a un corpo esile senza memoria.
Ancora doppi binari che s’incontrano: il singolo personaggio e la storia di un passato non abbastanza recente per lasciarsi inquadrare con la corazza del distacco emotivo. E poi: lo slancio politico da una parte, e le disillusioni personali dall’altra.
Uno e tutti si mescolano, come nei romanzi precedenti di Ardone, per ricomporre una storia, quella di Elba, nella complessità del tempo e di epoche diverse con le loro precise ingiustizie. Da giovane, il dottor Meraviglia ha lottato nelle fila della Psichiatria democratica, è stato fedele ai Radicali e in difesa delle sue idee si è fatto perfino la galera. Era uno psicoterapeuta pieno di speranze, prima che lo sguardo caustico dell’autrice ce lo riconsegni vecchio e malconcio, con una famiglia disgregata, e l’incedere inarrestabile della malattia – e non si può non sottolineare il fatto che questo personaggio, e la sua evoluzione, siano il frutto della fucina letteraria di K, la rivista diretta da Christian Rocca e Nadia Terranova, in cui Ardone trovando ospitalità ha incontrato, lo ha ammesso lei stessa, la scintilla che le ha permesso di sviluppare in seguito il protagonista del suo romanzo.
«Questa è la verità. L’infelicità degli altri, alla fine, ti entra nella radice dei capelli, si insinua sotto le unghie, è un tartaro che si incrosta tra denti e gengive, resistente come il calcare sulle fughe delle mattonelle del bagno, a lungo andare ti consuma fino a farti sanguinare i pensieri», conclude il dottor Meraviglia.
Resta il legame umano fra chi è nella condizione di salvare l’altro e la vittima che viene tratta in salvo. Nella fatica di chi sceglie di prendersi cura dei più deboli, resta la consapevolezza che è questo sforzo a chiarire il senso di un’esistenza. L’ascolto e l’amore. Incomprensibili, scrive Ardone, come la pazzia.