Branded entertainment L’economia delle passioni

Le aziende scelgono sempre di più forme di intrattenimento per raccontarsi e promuovere i loro prodotti. I risultati ci sono, ma per raggiungere il successo devono adottare un nuovo approccio

Foto di Randalyn Hill su Unsplash

Che cosa è il “Branded Entertainment”? «È un prodotto editoriale ideato, realizzato e finanziato da un brand, interamente originale piuttosto che integrato in un progetto comunicativo preesistente, veicolato da piattaforme mediali e finalizzato a intrattenere un pubblico-target in modo coerente tanto con i valori e gli obiettivi del brand quanto con gli elementi caratteristici della piattaforma».

Si può definire un campo del marketing e della comunicazione, oggi più che mai in continua crescita. Lo dimostrano i dati presentati all’Obe Summit 2023, la decima edizione del più importante convegno in Italia a esso dedicato e organizzato da Osservatorio Branded Entertainment (Obe), l’associazione che studia e promuove il suo utilizzo come leva strategica nella comunicazione di marca. Come ha affermato il suo consigliere e managing director in Mediacom, Erik Rollini, il BE non è più come era all’inizio «la ciliegina sulla torta», ma «una fetta importante degli investimenti Adv nel nostro Paese». Il 46 per cento delle aziende investono su questo infatti il dieci per cento in più. L’84 per cento di quelle intervistate ha dichiarato di aver realizzato nel 2022 almeno un progetto di BE, un incremento di quattro punti percentuali rispetto al dato dell’anno precedente. È aumentato anche il suo valore di mercato, 619 milioni di euro, nove per cento in più rispetto al 2021, con una prospettiva di crescita del sei per cento nel 2023.

Perché i brand utilizzano sempre di più questo strumento? Il loro interesse nasce dall’esigenza di avvalersi di spazi mediatici diversi da quelli canonici, ampi e flessibili, per raccontare qualcosa di più di loro, della loro storia, dei valori su cui si basa la creazione del proprio prodotto. È la ragione che la maggior parte delle aziende (68 per cento delle intervistate) ha indicato come primaria nella scelta di entrare in questo settore.

Insieme a questa si aggiunge il desiderio di associarsi o sposare temi o valori specifici (53 per cento), sorprendere, divertire e coinvolgere emotivamente il target (48 per cento), emergere dall’affollamento pubblicitario abituale (48 per cento), raggiungere target nuovi o difficili (34 per cento).

Entra qui in gioco l’entertainment, il campo attraverso cui le marche cercano di raggiungere questi obiettivi, attraverso modalità «che tengano conto e lavorino sugli interessi delle persone». Lo afferma Simonetta Consiglio, direttrice generale di Obe, specificando come ciò debba essere fatto: «I progetti devono essere ricercati dall’audience. Questo, veicolando contenuti che in primis i suoi membri vogliono vedere. Contenuti che devono essere costruiti secondo le logiche dell’entertainment: non pensando i destinatari quali clienti di un prodotto, ma come pubblico associabile a quello del settore cinematografico».

È una formula comunicativa estremamente attrattiva per le nuove generazioni, risponde ai loro gusti: «Vogliono essere intrattenuti, informati, avere informazioni in modo fruibile, efficace, ma mai didascalico. Non vogliono interruzioni». Il brand assume così una nuova veste: non più ente superiore che crea una comunicazione orientata a un pubblico passivo, ma editore, che si racconta attraverso narrazioni e modalità costruite in base a ciò che il destinatario vuole conoscere e sapere, cucite a misura su di lui, tailor-made.
A tal proposito, tra le piattaforme utilizzate, l’editoria ha acquistato diverse posizioni. Parlando di quella cartacea i dati rivelano che un’azienda su quattro ricerca progetti BE realizzati in questo formato, per lo più progetti editoriali per l’appunto, economicamente quelli maggiormente accessibili. Ancora più rilevante è stata la crescita però di quella online: al quarto posto (39 per cento), preceduta dai social (72 per cento), dal mezzo televisivo (49 per cento) e da YouTube (41 per cento).

Il trend è confermato da quali spazi di racconto le compagnie scelgono per investire nelle loro operazioni di Branded Entertainment: sul fronte digital, gli articoli redazionali sono infatti al primo posto, con il 69 per cento dei voti.  L’editoria online si sposa infatti perfettamente con l’esercizio del BE di indirizzare le sue proposte incontro a quelle del pubblico. I due comparti dialogano tra loro: sempre più pubblicazioni raccontano la storia di un brand e i brand si avvalgono di queste come mezzi attraverso cui veicolare una conoscenza più approfondita di chi sono.

Quanto detto fino ad adesso è ancora più vero per il Food&Beverage. «È il settore che investe maggiormente in BE. Il cibo – spiega Simonetta Consiglio – fa parte della quotidianità delle persone, dei momenti di svago e il Branded Entertainment è una leva che si presta a raccontarli».

Molti sono i modi con cui i due campi si relazionano e portano avanti i loro progetti. Barilla nel 2021 aveva pubblicato «CareBornara. Le origini della Carbonara»: un cortometraggio che spiega come è nato uno dei piatti “italiani” più apprezzati al mondo. Sempre nello stesso anno, l’azienda aveva lanciato un altro progetto BE, questa volta interessante il settore della musica, la «Playlist Timer Barilla»: raccolte di brani musicali su Spotify, la cui durata corrisponde al tempo di cottura del formato di pasta a cui sono dedicate. Non mancano poi podcast che parlano di cibo e buona alimentazione, come mangiare bene e condurre uno stile di vita sano.

I social media e la televisione rimangono tuttavia i mezzi prediletti dal comparto Food&Beverage su cui veicolare le iniziative di Branded Entertainment. Questo, attraverso la creazione di programmi quali contest di cucina, tour alla scoperta di località culinarie, video-ricette postate poi nei propri feed personali, realizzate in collaborazione con influencer e creator.

Secondo i dati Obe, sempre più aziende si avvalgono di queste figure (+13 per cento rispetto al 2021), integrandole nella creazione e distribuzione dei loro contenuti, rendendole parte della strategia di comunicazione della marca. Tra queste, una delle prime che ha assunto questo ruolo nel panorama italiano è stata Benedetta Parodi. Fondatrice e protagonista del programma televisivo “Cotto e mangiato”, ha avuto l’idea e il coraggio di girare verso di lei la telecamera e di rendere la sua cucina il suo set, anticipando quanto viene fatto adesso nei diversi canali social, compreso il suo. Oggi nel suo profilo Instagram @ziabene continua a pubblicare le proprie ricette, spesso co-create e realizzate insieme a un brand.

Ospite all’Obe Summit 2023, la testimonial ci spiega come avviene, o almeno dovrebbe avvenire, questa collaborazione, con quale approccio dovrebbe essere vissuta, a partire dal destinatario. «È necessario insegnare al pubblico che nei canali social di un personaggio ci deve essere la pubblicità. La sua presenza deve essere vista come un valore aggiunto, una conseguenza naturale. Se mi segui, ti interessa ciò che mi piace». Dall’altra parte, l’azienda dovrebbe adottare un atteggiamento di ascolto e comprensione nel momento in cui interagisce con un influencer e con il suo pubblico. «I brand devono capire che i social non sono la televisione: l’approccio pubblicitario deve essere naturale, non didascalico».

Entrambe le parti devono lavorare insieme e in modo coerente, al fine di co-creare dei contenuti che interessino il pubblico. Contenuti che arrivano alle persone, proponendo storie in cui loro si possono ritrovare e per questo vincenti. I brand devono mostrarsi per quello che sono, togliere i filtri che li separano dall’audience ed essere sinceri nei suoi riguardi. È un’operazione che deve tener conto del linguaggio che questa utilizza e dei continui cambiamenti a cui esso è sottoposto. Infine, non bisogna dimenticare di perseguire l’intento primario del Branded Entertainment: divertire il destinatario-spettatore, stupirlo con un effetto wow.

Tutti insieme questi fattori creano una “orchestrazione”, una proposta unica e consistente, che si poggia su tre valori principali: autenticità, coerenza, ma soprattutto passione. È la passione che congiunge persone e aziende. Ogni passione può diventare intrattenimento e se mantenuta, gestita e perseguita può essere fonte di reddito. Si arriva così a parlare della “Passion Economy”, il tema dell’edizione di quest’anno. Questa vuole essere un’ipotesi di lavoro che si propone di affrontare una sfida: mettere al centro del modello di sviluppo e di crescita delle persone e delle aziende le proprie passioni.

È Laura Corbetta, presidente di Obe, a illustrarne le potenzialità: «La passione alimenta la creatività, l’innovazione, la determinazione umana, spinge le persone a superare i propri limiti, ad abbracciare il cambiamento, sviluppare empatia e creare un impatto significativo sulla società». Da questo punto di vista, la passione si riallaccia al tema dell’attenzione per l’altro, a partire dalle persone intorno a noi. Come sottolinea sempre la direttrice: «L’industry si deve prendere cura delle persone che lavorano nel proprio settore. Queste spesso sono trascurate, stratificate in tempi, linguaggi, modalità non più adeguate alle sensibilità contemporanee». Non solo: i brand devono anche ascoltare, andare incontro ai bisogni dei loro clienti. «Consumatori e dipendenti chiedono alle aziende di schierarsi a loro favore, di essere coinvolte maggiormente in tematiche sociali e politiche come il cambiamento climatico, la crisi energetica, la sicurezza sanitaria, l’equità sociale».

Secondo l’ultimo report di Edelman Trust, sei persone su dieci in Italia ritengono che le aziende dovrebbero usare il potere iconico dei propri brand per creare identità condivise, in grado di unire e rafforzare il tessuto sociale e culturale del Paese. Più delle istituzioni, queste sono diventate punti di riferimento a cui le persone guardano per veder esaudito il loro desiderio di una società più equa, giusta e solidale. Ne è esempio uno dei sei personaggi che sono stati premiati con l’Obe Honor Awards: Nico Acampora, fondatore di PizzAut, «per l’impegno sociale, per la sua contagiosa energia, per il coraggio e la determinazione nel promuovere e realizzare l’inclusione delle persone “aut”». I suoi due locali, uno a Monza e uno a Cassina de’ Pecchi (Mi), danno la possibilità ai suoi quarantacinque dipendenti, tutti affetti da autismo, di integrarsi nel mondo del lavoro, ma, ancora di più, di dimostrare ai “normaloidi” quanto queste persone abbiano da offrire. Per far ciò serve passione: «È una prassi impegnativa – sottolinea Laura Corbetta – perché richiede sguardo lungo e lento, che si estende oltre il presente e si proietta verso il futuro». È vero, ma la presidente sostiene che è altrettanto vero questo, parafrasando Steve Jobs: «Companies with passion can change the world for better». Tradotto: «Sono le aziende con passione che possono cambiare il mondo in meglio».

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