Focus sui contenuti A cosa fare attenzione parlando di branded entertainment

Questa nuova forma di comunicazione commerciale ha davanti a sé molte opportunità e altrettanti rischi ai quali è bene fare attenzione fin d’ora, per non comprometterne la validità ed efficacia futura

Foto di Muhamad Syazwan su Unsplash

La bella iniziativa che l’Osservatorio Branded Entertainment (Obe) ha organizzato martedì 24 ottobre presso la centrale Nuvola Lavazza a Torino ha offerto a molti presenti l’occasione di una riflessione su una branca della comunicazione commerciale che certamente ai più può non apparire così immediatamente comprensibile. Il branded entertainment, infatti, si differenzia dalla comunicazione commerciale che chiamiamo genericamente pubblicità perché offre un contenuto a chi ne fruisce che non si limita semplicemente alla promozione dell’acquisto del bene, ma ambisce ad arricchire sotto un qualche profilo culturale lo spettatore.

Naturalmente, il fatto che il branded entertainment sia promosso e finanziato dalle aziende, e quello del cibo assorbe oltre un quarto degli investimenti aziendali in questo campo, implica che anche questa comunicazione abbia degli obiettivi misurabili in termini aziendali. Certamente, fra essi si possono trovare l’aumento delle vendite e quindi una migliore performance ROS (return on sales), ma non manca una declinazione altrettanto importante che riguarda la reputazione del brand, perché il branded entertainment molto contribuisce al cosiddetto brand lift e soprattutto a una spinta alla advocacy, vale a dire al trasformare la propria preferenza nel suggerimento ad altri di preferire quel brand.

Accanto a queste note certamente interessanti e per molti versi positive riguardo al fenomeno che sono state illustrate da Obe, con dovizia di dati aggregati in maniera efficace, sono tuttavia emersi due aspetti che inducono gli appassionati della comunicazione aziendale, per professione o per studio, a tenere la guardia alta.

Da un lato, ci sono i rischi di un branded entertainment che manchi l’obiettivo perché non sufficientemente trasparente rispetto alla complessità del cibo, essendo troppo fortemente orientato a esaltarne le qualità, che in Italia appaiono sempre degne esclusivamente di aggettivi superlativi, con l’esito di risultare non solo poco efficace ma addirittura ridondante, poco credibile e controproducente. L’esempio più noto in questa classifica negativa di cattivo brand entertainment ha come protagonista quel Renatino che mesi orsono ha meritato paginate di stampa fisica e virtuale.

Viceversa, esistono molteplici esempi di branded entertainment efficace nel trasferire valori aziendali al grande pubblico che diversamente non potrebbero passare e addirittura contribuire alla ridefinizione del panorama produttivo da cui un prodotto viene, come nel caso della campagna Unfilter Mexico promossa dal brand birrario Corona.

Dall’altro lato, il rischio mai completamente svanito è quello di considerare il product placement come una forma di branded entertainment.

Il product placement che negli anni Settanta era caratterizzato dalla presenza ubiqua di pochi marchi di sigarette e di bottiglie di determinati liquori in ogni filmetto di serie Z italiano, oggi ha molto più spesso le forme del subdolo advertisement svolto attraverso le centinaia di influencer che si prestano a questo sui social network, senza la necessaria trasparenza che pure dal 2017 l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) richiede in maniera esplicita. Se continuerà l’attuale confusione, in assenza di auto regolamentazione del settore, si può ben immaginare, il legislatore vorrà normare questo campo in maniera che potrebbe ispirarsi alla legge sugli influencer adottate in Francia a giugno di quest’anno, decisamente molto stringente nel chiudere i canali della comunicazione commerciale alternativa attraverso i social media.

Chi scrive queste righe per professione e per formazione è ovviamente incline a vedere nelle regole una tutela a baluardo dei più deboli che, quando necessarie, debbono assolutamente essere adottate, tuttavia non c’è dubbio che una seria presa di coscienza dei rischi del product placement mascherato (o coperto da foglie di fico, come le lettere “ad”scritte giusto al fondo di una didascalia in mezzo a decine di hashtag) possa spingere ad adottare spontaneamente misure di auto regolamentazione che allontanino la necessità di un intervento magari poco accorto o soprattutto troppo estemporaneo da parte del legislatore nazionale.

Il branded entertainment è un grande settore, largamente inesplorato e molto promettente soprattutto per l’ampiezza di orizzonti che riserva a chi scrive e soprattutto pensa la comunicazione aziendale nel quadro di una serie di finalità più ampie di quelle esclusivamente legate alla vendita. Ma come insegna uno dei maggiori filosofi americani del ventesimo secolo, da grande potere derivano grandi responsabilità ed è l’esercizio di queste ultime l’auspicio che ci sentiamo di fare insieme ai migliori auguri allo sviluppo del settore.

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