Questione di target Il linguaggio giusto per il lettore giusto

Come si scrive di cibo? Come si “dovrebbe” scrivere di cibo? Il lettore evoluto lancia nuove sfide, che gli editori, i giornalisti e soprattutto le aziende sono pronti a cogliere. Ne abbiamo parlato all’ultima Tavola Spigolosa

Alessia Cicuto, Ernesto Brambilla, Anna Prandoni, Francesca Romana Mezzadri, Guido Tommasi

Gli editori hanno abbandonato i manuali “polverosi” figli del dopoguerra per lasciare il posto a ricettari esteticamente più appaganti e decisamente meno apologetici. I giornalisti hanno smesso di decantare le proprietà nutrizionali di frutta e verdura, e hanno imparato a confrontarsi con un lettore più informato ed esigente. Le aziende hanno compreso che la scelta di un prodotto è sempre meno vincolata alle sue caratteristiche e sempre più condizionata dalla sfera valoriale che lo avvolge. Questi sono i presupposti del dibattito che ha animato l’appuntamento di Tavola Spigolosa dedicato alla narrazione del cibo, in continua inevitabile evoluzione, proprio come il lettore contemporaneo.

«Eravamo quattro amici in libreria…» canterebbero i ricettari che hanno fatto la storia, se solo avessero una voce. E gli editori, che possono testimoniare per loro, ricordano chiaramente gli anni in cui avevano praterie sconfinate in cui scorrazzare, e hanno fatto la rivoluzione mossi dal desiderio di «sottrarre un genere letterario all’iconografia della nonna con la paranza». La conquista raccontata da Guido Tommasi Editore, che ha mosso i suoi primi passi nel 1999, sembra ormai lontana. Se oggi i talent show culinari hanno acceso i riflettori sull’autore-celebrità, a quel tempo bastava parlare di cucina, magari cercando una prospettiva diversa, moderna, meno arrogante. Ed è stato allora che “gli stranieri” ci hanno insegnato un linguaggio nuovo, più umile, che non fosse vittima della tradizione e dell’orgoglio nazionale che facciamo ancora fatica a scrollarci di dosso.

E adesso che il cibo è alla portata di tutti, scrivere qualcosa di diverso è uno sforzo quanto mai attuale. Ma la scelta delle informazioni da veicolare è solo il primo passo, e talvolta neppure il più importante, per comunicare con il grande pubblico. Tanto costante deve essere la serietà professionale del giornalista, quanto variabile il suo “registro vocale”: «Usare il linguaggio giusto per la testata su cui scrivi, quello che il lettore si aspetta di trovare, è fondamentale», spiega la giornalista freelance Francesca Romana Mezzadri. E questo non significa cambiare i fatti, ma empatizzare con chi sceglie di dedicarci il suo tempo, affinché si senta accolto, compreso, coccolato. E naturalmente informato.

Quando il consumatore finale è un professionista del settore, il gioco si fa (più) duro. «È uno spostamento di focus ancor prima che di linguaggio», evidenzia Ernesto Brambilla, giornalista di Bargiornale e Dolcegiornale. Si tratta di tarare i temi sulle esigenze dell’esperto, maneggiando con cautela i tecnicismi del caso; perché un’imprecisione di troppo può essere fatale per una rivista da cui ci si aspetta un’autorevolezza maggiore – forse a buon diritto – di quella attesa da testate generaliste. Che si voglia definire “giornalismo tecnico” o meno, richiede competenze specifiche, più approfondite e mature di quelle che possono derivare da una curiosità ben indirizzata.

E poi arriva il branded entertainment. «Pictures came and broke your heart. Put the blame on VCR», cantano The Buggles in “Video Killed the Radio Star”. Alessia Cicuto, fondatrice e managing partner di Brandstories, racchiude in questa metafora musicale alquanto azzeccata la reazione preoccupata di editori e giornalisti. All’improvviso – e neanche troppo, se pensiamo alla guida Michelin – l’azienda si è fatta editore, diventando narratrice di sé stessa. E d’altra parte oggi non può non esserlo. Ma si può parlare di concorrenza? In fondo il brand non si racconta da solo, e le sinergie sono dietro l’angolo.

L’abilità del giornalista si rivela dunque preziosa per creare contenuti capaci di uscire dalla gabbia della pubblicità. Contenuti che non vengono subiti, ma cercati. Il consumatore non deve essere necessariamente invogliato all’acquisto, ma riconoscersi nei valori che un certo prodotto rappresenta. E quindi agli autori si chiede qualcosa in più dell’ineccepibile lavoro di cronaca. Devono trasformare le storie in emozioni, che si tratti di un libro, di un podcast o di un articolo di giornale. E se il giornale difende la sua credibilità, il contenuto del brand su quel giornale avrà un peso diverso agli occhi del lettore.

Non è questa la competizione che porterà al crollo di una professione sopravvissuta all’avvento dei social network. Il cambio di paradigma lo abbiamo già vissuto e in qualche modo superato. Quando i personaggi pubblici sono diventati proprietari di quello che volevano veicolare e si sono rivolti direttamente al loro pubblico, senza intermediario alcuno, il giornale è stato privato dell’esclusiva. Ha forse perso la sua dignità? Ha trovato un modo nuovo di leggere e comunicare, magari più lento e quindi potenzialmente di maggior valore. E l’effetto di incontinenza totale generato dai nuovi canali si è piegato a favore del giornalista, che ha guadagnato una nuova fonte, spesso più affidabile in quanto diretta.

A prescindere dal mezzo e dal linguaggio (coerente) che ne deriva, al di là delle conoscenze specialistiche, sono le competenze giornalistiche a fare la differenza, anche nel settore enogastronomico. Non si limita tutto alla scrittura: bisogna sapersi relazionare con le persone, restare aggiornati sui trend, collegare i puntini per delineare uno scenario. E se questo è il bagaglio a corredo, i canali “avversari” non potranno che diventare – prima o poi – alleati.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter