Spazio vitaleIl limbo permanente dei rifugiati nei maxi campi profughi del mondo

Dadaab, in Kenya, ospita quasi quattrocento mila persone sfollate dalla Somalia. Cox’s Bazar, in Bangladesh, accoglie un milione di rohingya, etnia di religione musulmana perseguitata dal governo birmano

Campo profughi a Cox’s Bazar, Bangladesh (Unsplash)

Chi vive in un campo profughi non è né dentro né fuori. I rifugiati non sono liberi di uscire dal campo e non vivono il contesto sociale di un Paese. Tra i confini del campo, la vita è sospesa. Il limbo di queste esistenze, a volte, si propaga per generazioni: quelle dei profughi palestinesi o quelle di somali nel campo di Dadaab in Kenya. Nella cooperazione internazionale, pratica e teoria non coincidono quasi mai. Per le Nazioni Unite, i campi per rifugiati sono luoghi di assistenza e protezione «temporanea» per chi fugge da conflitti o persecuzioni.

Si possono immaginare le difficoltà di gestire un insediamento di persone sfollate: niente infrastrutture, servizi e strutture amministrative. I finanziamenti sono pochi, le condizioni ambientali difficili, le località remote e poco raggiungibili. Nella maggior parte dei casi si riesce a offrire solo ricovero, acqua, cibo e servizi medici essenziali. Come spiega Maurizio Ambrosini, docente di sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano, «il concetto di campo profughi è piuttosto ampio. Si riferisce a situazioni diverse da un punto di vista giuridico, strutturale e funzionale. Alcuni campi sono allestiti autonomamente da persone che non hanno ricevuto protezione internazionale». In molti di questi territori, lo Stato è assente, l’unica “autorità” è costituita dalle organizzazioni umanitarie.

Dadaab è un posto lontano da tutto nel Kenya orientale. In questa zona semiarida, nel 1991 sono arrivate migliaia di persone provenienti dalla Somalia, in fuga dalla guerra civile. Oggi, dopo trentadue anni, a Dadaab vivono quasi quattrocento mila profughi, divisi in più campi distanti circa cinque chilometri l’uno dall’altro.

Dadaab è diventata di fatto una città. La terza del Kenya, per estensione, dopo Nairobi e Mombasa. I rifugiati somali con l’aiuto della cooperazione internazionale hanno costruito moschee, negozi e scuole. Dadaab diventerà anche amministrativamente una città. Su un edificio il governo kenyano ha messo un’insegna: “Dadaab Municipality”.

«Molte tende hanno lasciato il posto alle strutture fatte di mattoni e lamiere, molto simili alle case tradizionali somale», racconta Andrea Bianchessi, responsabile regionale per l’Africa orientale della Ong Avsi. La situazione a Dadaab non è semplice. Nel 2017 centomila persone hanno lasciato il campo e sono tornate legalmente in Somalia. Poi, nel 2023 un altro esodo: altri centomila profughi accolti. «Gli ultimi arrivati non hanno la stessa situazione di chi vive qua da generazioni. Abitano in tende fatte con teli di plastica e bastoni di legno. La siccità in Somalia è uno dei motivi per cui sono emigrati», dice Bianchessi che visita regolarmente il campo dal 2015.

A Dadaab ci sono molti giovani, ragazzi e ragazze che spesso non accettano l’illusione di normalità che protegge le persone più anziane. «Molti mi chiedono perché non possano andare via. Come tutti gli adolescenti hanno un’idea di futuro: qualcosa di diverso da quello che vedono», continua Bianchessi. Avsi, l’Ong di cui fa parte, lavora a Dadaab soprattutto nel settore della formazione scolastica ed extra-scolastica: organizza attività che possano tenere i bambini lontani dalla criminalità e dall’estremismo politico e religioso.

In questa regione dell’Africa è attivo il gruppo jihadista Al-Shabaab che cerca di reclutare giovani anche tra i profughi di Dadaab. «Migliorare le condizioni di vita nei campi, l’integrazione con il Paese ospitante e la formazione è fondamentale per evitare radicalizzazioni», dice Bianchessi.

Dadaab è una storia che si ripete. In Medioriente e dall’altra parte dell’oceano Indiano. Nei campi profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, le persone di etnia rohingya cercano riparo in strutture di stracci, teli e lamiere che non possono essere chiamate case. Fuggono dalle persecuzioni del governo birmano e si nascondono dalle bande armate composte dagli stessi sfollati. Secondo i dati dell’Unhcr, quasi un milione di profughi abitano nei campi di Cox’s Bazar. La densità di popolazione è pari a sei mila persone per chilometro quadrato, più della Striscia di Gaza.

Quello di Cox’s Bazar è il più grande insediamento di profughi al mondo. I rohingya una delle minoranze più perseguitate: un gruppo di religione musulmana originario di una zona del Myanmar, Paese dove la maggior parte della popolazione è buddista. Violenza, persecuzioni e sovraffollamento dei campi hanno portato alla formazione di bande criminali, spesso composte dai profughi. Una di queste è Arsa (Arakan rohingya salvation army, esercito per la salvezza dei rohingya nel Rakhine), coinvolta in traffici di droga, armi e persone. A Cox’s Bazar chi ha provato a denunciare vive con la certezza di morire, nascosto in “case” senza muri e senza serrature.

Dall’arrivo dei primi rohingya a Cox’s Bazar, l’Ong Save the Children cerca di offrire assistenza. «Ci occupiamo di quasi tutto – dice a Linkiesta Maheen Chowdhury, responsabile dell’area Bangladesh della Ong, di ritorno dal campo – dalla gestione dei rifiuti e dell’acqua, all’educazione, all’assistenza sanitaria». I bambini e le bambine che vivono nei campi soffrono di insonnia e depressione. Chowdhury racconta di un futuro senza prospettive: «Il Bangladesh li ha accolti temporaneamente, ma sono un milione di persone e serve l’intervento della comunità internazionale, un’azione decisa per fermare le violenze contro i rohingya». Farlo significherebbe anche evitare di alimentare odio e criminalità in chi è vittima di discriminazioni.

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