Chi vive in un campo profughi non è né dentro né fuori. I rifugiati non sono liberi di uscire dal campo e non vivono il contesto sociale di un Paese. Tra i confini del campo, la vita è sospesa. Il limbo di queste esistenze, a volte, si propaga per generazioni: quelle dei profughi palestinesi o quelle di somali nel campo di Dadaab in Kenya. Nella cooperazione internazionale, pratica e teoria non coincidono quasi mai. Per le Nazioni Unite, i campi per rifugiati sono luoghi di assistenza e protezione «temporanea» per chi fugge da conflitti o persecuzioni.
Si possono immaginare le difficoltà di gestire un insediamento di persone sfollate: niente infrastrutture, servizi e strutture amministrative. I finanziamenti sono pochi, le condizioni ambientali difficili, le località remote e poco raggiungibili. Nella maggior parte dei casi si riesce a offrire solo ricovero, acqua, cibo e servizi medici essenziali. Come spiega Maurizio Ambrosini, docente di sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano, «il concetto di campo profughi è piuttosto ampio. Si riferisce a situazioni diverse da un punto di vista giuridico, strutturale e funzionale. Alcuni campi sono allestiti autonomamente da persone che non hanno ricevuto protezione internazionale». In molti di questi territori, lo Stato è assente, l’unica “autorità” è costituita dalle organizzazioni umanitarie.
Dadaab è un posto lontano da tutto nel Kenya orientale. In questa zona semiarida, nel 1991 sono arrivate migliaia di persone provenienti dalla Somalia, in fuga dalla guerra civile. Oggi, dopo trentadue anni, a Dadaab vivono quasi quattrocento mila profughi, divisi in più campi distanti circa cinque chilometri l’uno dall’altro.
Dadaab è diventata di fatto una città. La terza del Kenya, per estensione, dopo Nairobi e Mombasa. I rifugiati somali con l’aiuto della cooperazione internazionale hanno costruito moschee, negozi e scuole. Dadaab diventerà anche amministrativamente una città. Su un edificio il governo kenyano ha messo un’insegna: “Dadaab Municipality”.
«Molte tende hanno lasciato il posto alle strutture fatte di mattoni e lamiere, molto simili alle case tradizionali somale», racconta Andrea Bianchessi, responsabile regionale per l’Africa orientale della Ong Avsi. La situazione a Dadaab non è semplice. Nel 2017 centomila persone hanno lasciato il campo e sono tornate legalmente in Somalia. Poi, nel 2023 un altro esodo: altri centomila profughi accolti. «Gli ultimi arrivati non hanno la stessa situazione di chi vive qua da generazioni. Abitano in tende fatte con teli di plastica e bastoni di legno. La siccità in Somalia è uno dei motivi per cui sono emigrati», dice Bianchessi che visita regolarmente il campo dal 2015.
A Dadaab ci sono molti giovani, ragazzi e ragazze che spesso non accettano l’illusione di normalità che protegge le persone più anziane. «Molti mi chiedono perché non possano andare via. Come tutti gli adolescenti hanno un’idea di futuro: qualcosa di diverso da quello che vedono», continua Bianchessi. Avsi, l’Ong di cui fa parte, lavora a Dadaab soprattutto nel settore della formazione scolastica ed extra-scolastica: organizza attività che possano tenere i bambini lontani dalla criminalità e dall’estremismo politico e religioso.
In questa regione dell’Africa è attivo il gruppo jihadista Al-Shabaab che cerca di reclutare giovani anche tra i profughi di Dadaab. «Migliorare le condizioni di vita nei campi, l’integrazione con il Paese ospitante e la formazione è fondamentale per evitare radicalizzazioni», dice Bianchessi.
Dadaab è una storia che si ripete. In Medioriente e dall’altra parte dell’oceano Indiano. Nei campi profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, le persone di etnia rohingya cercano riparo in strutture di stracci, teli e lamiere che non possono essere chiamate case. Fuggono dalle persecuzioni del governo birmano e si nascondono dalle bande armate composte dagli stessi sfollati. Secondo i dati dell’Unhcr, quasi un milione di profughi abitano nei campi di Cox’s Bazar. La densità di popolazione è pari a sei mila persone per chilometro quadrato, più della Striscia di Gaza.
Quello di Cox’s Bazar è il più grande insediamento di profughi al mondo. I rohingya una delle minoranze più perseguitate: un gruppo di religione musulmana originario di una zona del Myanmar, Paese dove la maggior parte della popolazione è buddista. Violenza, persecuzioni e sovraffollamento dei campi hanno portato alla formazione di bande criminali, spesso composte dai profughi. Una di queste è Arsa (Arakan rohingya salvation army, esercito per la salvezza dei rohingya nel Rakhine), coinvolta in traffici di droga, armi e persone. A Cox’s Bazar chi ha provato a denunciare vive con la certezza di morire, nascosto in “case” senza muri e senza serrature.
Dall’arrivo dei primi rohingya a Cox’s Bazar, l’Ong Save the Children cerca di offrire assistenza. «Ci occupiamo di quasi tutto – dice a Linkiesta Maheen Chowdhury, responsabile dell’area Bangladesh della Ong, di ritorno dal campo – dalla gestione dei rifiuti e dell’acqua, all’educazione, all’assistenza sanitaria». I bambini e le bambine che vivono nei campi soffrono di insonnia e depressione. Chowdhury racconta di un futuro senza prospettive: «Il Bangladesh li ha accolti temporaneamente, ma sono un milione di persone e serve l’intervento della comunità internazionale, un’azione decisa per fermare le violenze contro i rohingya». Farlo significherebbe anche evitare di alimentare odio e criminalità in chi è vittima di discriminazioni.