Una sera di tanti anni fa, al festival jazz di Skopje, alla fine del concerto della Liberation Music Orchestra, Carla Bley si lamentò simpaticamente con Charlie Haden di esser stata costretta dagli altri musicisti a fare un solo di piano in conclusione di “We Shall Overcome”. Non si sentiva un’improvvisatrice, e in effetti non lo era. Non aveva certo la tecnica o lo swing dei grandi pianisti jazz. Si limitava spesso ad accompagnare i pezzi, lasciando agli altri musicisti il compito di improvvisare sulle sue composizioni. Ma Carla Bley – mancata ieri nella sua abitazione di Willow, New York, a ottantasette anni, per complicazioni derivanti da un tumore al cervello – compensava la mancanza di tecnica pianistica con una straordinaria capacità di composizione e arrangiamento. I suoi lavori per orchestra rivaleggiano infatti per qualità e bellezza degli arrangiamenti con quelli di giganti come Duke Ellington e Gil Evans. Sin dai suoi esordi le sue composizioni vennero reinterpretate – spesso radicalmente – da luminari del jazz, tra cui il suo primo marito, il grande innovatore del pianoforte free Paul Bley, Art Farmer e George Russell.
L’amore per la musica le venne trasmesso dal padre, insegnante di pianoforte e maestro di coro. Trasferitasi a New York, lavorò come cigarette girl in locali jazz quali il Birdland. Ammise più tardi che più che a vendere sigarette passava il tempo ad ascoltare rapita i grandi musicisti del tempo, da Miles Davis a John Coltrane. Dopo il suo matrimonio con Paul Bley, si dedicò alla composizione e a frequentare i musicisti della scena free di New York, radunati dal 1964 sotto l’egida della Jazz Composers Guild, fondata dal grande trombettista Bill Dixon.
Era un periodo di eccezionale fermento per il jazz statunitense. Artisti come John Coltrane e Ornette Coleman aprivano nuovi e inesplorati orizzonti musicali. Carla Bley venne profondamente influenzata dalla temperie culturale e artistica del tempo. I suoi primi lavori, “A Genuine Tong Funeral” e soprattutto il capolavoro “Escalator Over the Hill” (con la partecipazione di musicisti provenienti dal rock come il gigante Jack Bruce), sono oggi a giusto titolo considerati pietre miliari della musica jazz, modelli ineguagliati di creatività e innovazione.
Successivamente, Carla Bley ampliò ulteriormente i suoi orizzonti. Accanto a opere per gruppo e orchestra particolarmente riuscite (“Tropic Appetites”, “Dinner Music”, “Musique Mecanique”, “Carla Bley Goes To Church”, “The Lost Chords find Paolo Fresu” , e tanti altri), figurano collaborazioni in ambito progressive (con il batterista dei Pink Floyd Nick Mason nell’album “Fictitious Sports”) e rock (il gruppo con Jack Bruce e l’ex Rolling Stones Mick Taylor). Per non parlare degli imperdibili album della Liberation Music Orchestra con l’amico di tante battaglie Charlie Haden. Opere straordinarie che riflettevano l’impegno politico di Charlie e che venivano pubblicati in coincidenza con le Amministrazioni repubblicane americane, d esprimere volta per volta il dissenso nei confronti della politica estera americana.
Fino alle sue ultime opere, in trio con il sassofonista Andy Sheppard e con il terzo marito, il grande bassista elettrico Steve Swallow, Carla mantenne una felice vena compositiva, condita con un peculiare senso dell’ironia che ha pochi eguali nel jazz odierno. Forse l’unica artista oggi a poterle in qualche misura succedere è Maria Schneider, autrice di pregevolissimi album per big band. “Life goes on”, è il titolo dell’ultimo album di Carla. Per fortuna ci resta la sua musica. Che non morirà mai.