Senza sorprese, il Cnel – Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – ha scritto nero su bianco che il salario minimo non è la priorità per l’Italia. Il documento contiene tutte le obiezioni già mosse dalla coalizione di governo rispetto alla soglia minima legale di nove euro all’ora proposta dalle opposizioni. E questa posizione, altrettanto non a sorpresa, viene avallata dalla ministra del Lavoro Marina Calderone, che al Corriere dice: «Il lavoro del Cnel è stato prezioso perché ha arricchito il dibattito intorno al salario minimo con ulteriori elementi di valutazione e confermando quello che da tempo diciamo: esiste una contrattazione collettiva che copre ben oltre l’80% dei lavoratori italiani. Questa è la base, in linea con l’orientamento dell’Ue, per investire sul rinnovo dei contratti e quindi migliorare le condizioni economiche a favore dei lavoratori, anche attraverso i contratti di secondo livello che puntano sulla produttività e che, grazie ad un intervento di detassazione in manovra, sono cresciuti nell’ultimo anno del 35%».
Eppure, secondo gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti, sul salario minimo il Cnel fa una serie di errori. Nel documento – scrivono su Repubblica – ci sono «affermazioni apodittiche, senza alcun riscontro empirico», che servono «unicamente a sposare la tesi per cui in Italia non c’è bisogno di un salario minimo».
Il documento – spiegano Boeri e Perotti – «coltiva l’idea che il mercato del lavoro italiano sia pressoché interamente regolato da sindacati e associazioni di categoria. Sostiene che quasi il 100 per cento dei lavoratori italiani è coperto dalla contrattazione collettiva. A riprova di questo, ci sarebbe il fatto che quasi tutti i moduli (Uniemens) che regolano i versamenti contributivi delle aziende per i loro lavoratori contengono un riferimento esplicito ad un contratto nazionale. Inoltre, secondo il Cnel, nel 97% dei casi, si tratterebbe di contratti sottoscritti da federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil che “nella quasi totalità dei casi” fissano dei minimi superiori ai 9 euro all’ora, il livello proposto dal disegno di legge presentato in Parlamento da un ampio fronte di partiti dell’opposizione. L’implicazione di tutto questo è che un salario minimo fissato a quel livello non servirebbe perché c’è già nei fatti. Bisognerebbe solo rendere obbligatorio per i datori di lavoro applicare i contratti collettivi sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi a tutti i lavoratori».
È davvero così? Per Boeri e Perotti ci sono almeno tre problemi in questa tesi.
Il primo è che «anche prendendo per buone le affermazioni del Cnel sul grado di copertura della contrattazione, ci sono molti “quasi” di cui tenere conto. Il salario minimo è uno strumento che si rivolge a fasce marginali, relativamente piccole della forza lavoro. In molti Paesi non interessa più del 2-3% dell’occupazione. Quindi il fatto che quasi tutti i lavoratori siano coperti dalla contrattazione e che quasi sempre questa fissi salari non da fame non implica affatto che un salario minimo non sia necessario. Serve per affrontare il problema di quel 2-3% di lavoratori. E il fatto che siano per lo più giovani, donne e immigrati non vuol certo dire che contino di meno degli altri».
Al punto due, si dice poi che «è grave che il Cnel non riconosca i limiti dei dati disponibili sulle retribuzioni. Si affida pressoché unicamente ai dati Inps sulle dichiarazioni contributive che hanno almeno due generi di problemi cui il documento sorprendentemente non fa rifermento. I dati dell’Inps non coprono il lavoro nero e solo parzialmente il lavoro grigio (in cui vengono dichiarati lavori part-time che in verità sono a tempo pieno). Inoltre l’Inps raccoglie contributi ma non c’è nessuna garanzia che a questi contributi corrisponda effettivamente una retribuzione loro proporzionata. Alcuni datori di lavoro possono pagare i contributi corrispondenti ai minimi tabellari della contrattazione collettiva per evitare controlli e ispezioni, ma poi versare ai loro lavoratori meno di quella cifra. E l’Inps non è in grado di saperlo».
Il terzo problema è che «il sindacato e le associazioni di categoria si rifiutano di misurare il loro grado di rappresentatività». Ne sa qualcosa Tito Boeri che aveva provato, quando era presidente dell’Inps, «a fornire misure oggettive della rappresentanza trovandosi di fronte al divieto totale delle parti sociali a rendere pubblici i dati raccolti sui versamenti delle quote associative alle diverse sigle sindacali. I sindacati si limitano a fornire loro stessi dei dati sulla loro rappresentanza che sono sistematicamente più alti di quelli che si rilevano nelle indagini campionarie presso i lavoratori (pari al doppio di quelli rilevati sul campo secondo gli studi di tre ricercatori dell’università di Copenaghen). Ma anche qualora si riuscisse davvero a misurare le adesioni alle diverse sigle, come può un giudice stabilire a quali gruppi di lavoratori si applicano, definire i perimetri dei contratti collettivi, quando i loro confini tra imprese, settori e mansioni sono estremamente nebulosi?». Un salario minimo per legge non avrebbe di questi problemi perché si applica a tutti i lavoratori, nessuno escluso.
C’è poi, nelle conclusioni del documento del Cnel, un’affermazione che definiscono «aberrante», ovvero che il problema dei salari in Italia è un problema di bassa produttività, ergo non è un problema di salario minimo.
«Questo vero e proprio non sequitur sembra basarsi sull’idea da libro di testo che il salario sia pari alla produttività (marginale), cioè al valore di ciò che il lavoratore produce», scrivono. «Ma qui stiamo parlando delle retribuzioni più basse: a quei livelli retributivi ci sono mille motivi per cui il lavoratore può essere pagato molto meno del valore di ciò che produce. Il salario minimo serve proprio a contrastare l’eccessivo potere contrattuale che hanno i datori di lavoro in questi casi».
E concludono: «Stupisce che il documento ignori questi aspetti elementari del nostro mercato del lavoro. Ma a pensarci bene non più di tanto: dopotutto il Cnel è composto per lo più da ex-sindacalisti delle sigle maggiori, che siedono sugli scranni del Cnel assieme ad ex-politici ed ex-rappresentanti di associazioni di categoria. Chiamiamolo allora Consiglio Nazionale per dare agli Ex un Lavoro».