Prima dell’invasione russa dell’Ucraina tra gli economisti esperti di Russia si usava dire, semplificando, che Mosca usa il petrolio per finanziare il bilancio statale, il gas naturale per la geopolitica, le risorse minerarie per distribuire ricchezze agli oligarchi. Dopo quasi due anni di guerra e lo stravolgimento di quella che ora è l’economia più sanzionata del mondo, quella sintesi resiste alla prova dei fatti. Le entrate delle esportazioni di greggio degli Urali continuano a essere fondamentali per finanziare il bilancio della Federazione Russa, gli oligarchi più potenti – come Roman Abramovich e Oleg Deripaska – si arricchiscono fornendo materie prime all’industria degli armamenti russa, mentre Gazprom, il colosso statale del gas, affronta le conseguenze del totale fallimento del ricatto energetico con cui Vladimir Putin ha provato a mettere in ginocchio i governi europei per farli desistere dal sostegno a Kyjiv.
Gazprom è passata dall’essere il più grande singolo fornitore mondiale di gas al mondo a veder crollare il proprio output produttivo al livello più basso dei suoi trent’anni di storia, e ora non ha altra scelta che adattarsi al nuovo imperativo della geopolitica russa: sopravvivere guardando alla Cina.
Il colosso statale del gas russo ha chiuso i primi sei mesi del 2023 con un utile netto di circa 2,8 miliardi di euro, in calo di oltre il quarantuno per cento rispetto ai quasi quattro miliardi dello stesso periodo del 2022. Nel resoconto pubblicato dalla società su Telegram, Gazprom ha comunicato che nel secondo trimestre di quest’anno ha generato una perdita netta di circa centottanta milioni di dollari, dopo un utile netto di più dieci miliardi nello stesso periodo dell’anno precedente, spinto alle stelle dai prezzi fuori controllo del primo anno di guerra. La prospettiva di redditività della società, classificato da Fortune tra le cinquecento aziende più importanti del mondo, è stata quasi azzerata.
Per decenni Gazprom si è concentrata sulle esportazioni verso l’Europa attraverso i gasdotti, trascurando gli investimenti nella capacità di lavorazione del gas naturale liquefatto (Gnl) che oggi permetterebbe al gas russo di raggiungere altri mercati. Ciò significa che adesso il Cremlino ha opzioni molto limitate per sostituire gli acquirenti europei.
Secondo gli analisti, le esportazioni di Gazprom al di fuori dei paesi della Comunità degli Stati indipendenti – Bielorussia, Armenia, Azerbaijan e i paesi Asia Centrale – potrebbero raggiungere circa cinquanta-sessantacinque miliardi di metri cubi all’anno, escluse le forniture alla Cina. Prima della guerra, la Germania da sola consumava la stessa quantità di gas russo, l’intera Europa, circa centocinquanta miliardi di metri cubi all’anno.
I limiti dell’amicizia senza limiti
Questa settimana il presidente russo sarà a Pechino per incontrare la sua controparte cinese Xi Jinping, sperando di assicurarsi nuovi accordi di esportazione per rafforzare la presenza internazionale di Gazprom e riempire le casse della società che, oltre a portare entrate per lo stato, ha il ruolo di alimentare il mercato interno russo, anche quando non è profittevole.
Dall’inizio della guerra Pechino ha aumentato nettamente le importazioni di gas russo, ma i problemi che ha avuto l’Europa a causa dell’eccessiva dipendenza dal gas e dalle infrastrutture di Gazprom non sono passati inosservati. La Cina è il più grande importatore mondiale di combustibili fossili, e la strategia di Putin contro i paesi europei ha dimostrato che per il Cremlino la rete di gasdotti che collegava i giacimenti siberiani all’Europa erano in primis uno strumento per creare una dipendenza, da usare come arma di coercizione economica.
Pechino non vuole trovarsi in una situazione simile. La Cina considera la diversificazione delle forniture una priorità strategica, e la Russia offre questa opportunità. Ma sarà fatto alle condizioni di Pechino, non di Mosca.
Dall’inizio della guerra, Mosca ha affermato più volte che i colloqui con Pechino per la costruzione del gasdotto Power of Siberia 2 sono nelle fasi finali, ma senza mai presentare progressi concreti. Il gasdotto collegherebbe i giacimenti della Siberia al mercato cinese, permettendo (potenzialmente) di portare le esportazioni totali di gas russo in Cina fino a quasi cento miliardi di metri cubi. Pertanto, anche nello scenario migliore ipotizzato dal Cremlino – con i progetti attuali e quelli pianificati conclusi e portati a piena capacità in tempi brevi – la superpotenza asiatica rappresenterebbe solo circa i due terzi dei volumi che un tempo affluivano verso l’Europa.
Inoltre, le entrate di Gazprom saranno molto inferiori rispetto al ricco mercato europeo, poiché non ha nessun potere negoziale nei confronti della Cina, un compratore unico che ha accesso a diverse forniture terrestri via gasdotto dai paesi dell’Asia (come Turkmenistan e Myanmar), e via mare attraverso il Gnl (Qatar, Stati Uniti, Australia e paesi africani). L’abbraccio energetico russo-cinese esiste, ma è debole, e a senso unico.
Qualsiasi accordo tra Xi e Putin non sarà sufficiente a riportare Gazprom allo status che aveva prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Il suo valore di mercato, un tempo il terzo più alto al mondo, è ora meno della metà della Equinor norvegese e gli addetti ai lavori non vedono possibilità di recupero. Alexander Ryazanov, ex vicepresidente del consiglio d’amministrazione di Gazprom intervistato da Bloomberg, sostiene che per i prossimi cinque o dieci anni il colosso statale russo non ha prospettive. Ryazanov ha detto anche di aver venduto tutte le sue azioni della società, in perdita.