Prevale un inevitabile stupore nel mettere le mani su “Hackney Diamonds”, il nuovo album del Rolling Stones e – sorvolando sull’orrenda copertina – cominciare ad ascoltare un lavoro che suona proprio come… un album dei Rolling Stones! Diamine, siamo nell’anno 2023 e questi sono gli stessi che, fino al 1969, rivaleggiarono coi Beatles per il titolo di gruppo più famoso del mondo – era più di mezzo secolo orsono, poco più d’una ventina d’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono proprio loro, i superstiti del line-up originale, o meglio, il quaranta percento, due su cinque, Mick e Keith, gli altri sono morti, Brian e Charlie, o sono in perenne convalescenza (l’ottantasettenne Bill– ma le cose poi non stanno nemmeno così, ci sono i vivi, i morti e i sospesi, coinvolti comunque nella realizzazione dell’opera, Watts in due pezzi, Wyman in uno solo).
Il fatto è che nel XXI secolo di album d’inediti gli Stones ne avevano pubblicato uno solo, nel 2006, “A Bigger Bang”, e non era stato un passaggio memorabile nella loro storia. Poi sono passati tanti altri anni, “Metronomo” Watts ha lasciato i compagni orfani del più blasé dei portatori di ritmo, c’erano state periodiche sortite live, ma la sensazione era sempre più quella del parco a tema, della visita tra i venerabili ruderi d’un passato leggendario e ormai codificato. Invece, nel non convenzionale entourage della band si dev’essere poco alla volta aperta la strada un’idea bizzarra e perfino rischiosa: coi due campionissimi Jagger e Richards al traguardo degli ottant’anni, rifarlo ancora una volta.
Tornare in studio, rimettersi ad attizzare l’artigianale formicolare da cui soltanto può nascere un long playing, tredici brani, poco meno di cinquanta minuti di musica, equamente suddivisi nella rivisitazione di tutti i generi da sempre battuti dalla band, il blues, i graffianti uptempo, le ballate, le variazioni country, tutto creato, scritto ed eseguito per l’occasione e all’insegna dell’originale, ma anche, e soprattutto, della reiterazione di una invitta liturgia musicale: i riff di chitarra che si rispondono tra loro, quella voce che sembra sempre avere fame, l’impressione d’un meccanismo vibratile che s’accende, con un’impareggiabile coesione di tutti gli ingranaggi.
Questo è “Hackney Diamonds”: il frutto dell’improbabile risveglio degli assegnatari di uno stato di mistica beatitudine, volteggianti a mezz’aria, nel nirvana dell’eterne popstar. Che hanno voluto capricciosamente rifarsi reali e assaporare ancora una volta la meravigliosa routine su cui hanno costruito l’esistenza: scovare la scintilla di una nuova canzone, attivare il magico congegno, un lick di chitarra elettrica su un beat inquieto, fino al dispiegarsi shakespeariano delle vocalità di Jagger, che inchioda l’ascoltatore alla poltrona, snocciolando un’altra delle sue perverse novelle.
A governare questo esperimento paranormale, gli Stones hanno scelto il produttore più on fire del momento: Andrew Watt, producer dietro ai successi di Post Malone, Miley Cyrus, Justin Bieber, Dua Lipa, capace d’infondere un po’ di nuova linfa in spiriti musicalmente terminali come Ozzy Osbourne e Iggy Pop. Watt non è un animista conservatore alla Rick Rubin, non rispetta la radice primaria del suono di un artista o di una band. Per lui la tecnologia governa il suono e ai consunti clienti accorda trattamenti-choc di ammodernamento.
Date un primo ascolto a “Hackney Diamonds” e capirete: la voce di Jagger suona come se avesse eternamente trent’anni, la chitarra di Richards, nei suoi intrecci col dirimpettaio Ron Wood, sembra un esercizio d’intelligenza artificiale – Richards suona più Richards di Richards. Il resto sono sessionmen di livello eccelso e ospitate eccezionali, accuratamente selezionate per accarezzare gli acquirenti: Elton John nella parte dell’oscuro pianista, in un brano Paul McCartney nel ruolo del bassista pazzo che si concede un assolo in distorsione che di cui mai l’avremmo creduto capace, la solita Lady Gaga prima della classe, che nel pezzo migliore del disco (“Sweet Sounds of Heaven”) ingaggia una sfida freestyle con Mick, tenendo nelle retrovie uno Stevie Wonder di passaggio.
Sul tutto, una curiosa atmosfera a doppia velocità: da un lato il divertito atteggiamento di chi sa che, se lo rifà un’altra volta, metterà ancora in fila tutto il cucuzzaro. Dall’altra un’immanente sensazione conclusiva, non triste o piagnona, fortunatamente nemmeno malinconica, ma ironica, scanzonata, consapevole di quell’assurda ribalta che s’illumina allorché i più vetusti dei veterani del rock rispolverano lustrini e bandane, lubrificano le giunture col dicloreum, s’assoggettano quietamente all’autotune e, come in un antico trip psichedelico, si concedono a quella speciale condizione semi-inconscia, quella naturale ispirazione che da sempre li rende capaci di dare forma e volume (talvolta perfino contenuto) a una musica.
Così “Hackney Diamonds” diventa un esercizio di metempsicosi: corpi finiti, rivivono in alias baldanzosi, il suono corre, il rock’n’roll srotola il suo campionario, è pleonastico ricordare che questa è la musica del diavolo, sesso in quattro quarti e che ascoltarli ti renderà perverso. La cosa diventa, soprattutto, contemplazione: come al cospetto dell’ultima piroetta di Nureyev, dell’ultimo quartetto di Eliot, dell’ultima fiamma di Bacon. Gli Stones hanno suonato ancora una volta per noi, per riassaporare l’effetto che fa, per godersela, guardarsi e guardarci. Senza stare a fare troppi commenti, alziamo un ultimo, convinto, commosso peana ai re.