«Sì, ti racconterò tutto, ma ora sto tremando, mi devo prendere una sigaretta». Inizia con queste premesse il documentario “High & Low”, presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma (18-29 ottobre), con la regia di Kevin MacDonald, già premio Oscar per il suo “One day in September” del 1999.
In effetti, il centro del documentario che ha come protagonista lo stilista di Gibilterra John Galliano, la supernova più luminosa che sia mai apparsa nella costellazione della moda, vive in una costante tensione scenografica, nell’attesa spasmodica di puntare le telecamere e la memoria su “l’incidente”, quella sera al Caffè La Perle nel 2011 che sancì un prima e un dopo nella sua carriera, e anche nella storia della moda.
Ma è forse questo il più grande difetto di un documentario che risulta ben fatto, terzo, con l’occhio di MacDonald che inquadra i protagonisti di questa storia (compresi Sidney Toledano, all’epoca Ceo di Dior, le amiche Naomi e Kate Moss, Anna Wintour, Edward Enninful e Philippe Virgitti, la vittima dell’incidente che fino a oggi non si era mai prestato alle telecamere) registrando le loro dichiarazioni.
Dichiarazioni a cui non viene data, tramite il montaggio, una connotazione positiva o negativa, ma che arrivano allo spettatore ruvide, con tutte le contraddizioni che nascondono. Lo stesso Galliano, consapevole della necessità di creare un prodotto valido e onesto, non ha avuto nessun tipo di controllo sul girato: il suo contributo si è limitato a identificare con il regista le persone che potevano essere disponibili ad una discussione sulla sua ormai quasi quarantennale carriera, e a farsi intervistare più volte nella sua casa a sud della Francia, dove vive con il suo compagno di lunga data, Alexis Roche.
«Non ho un particolare interesse nella moda», spiega MacDonald, «ma mi interessava la figura di Galliano come personaggio, il suo ruolo nella trasformazione di quest’industria tra la fine degli anni Novanta e il 2010. Siamo stati fortunati nell’aver accesso a un’immensa quantità di materiale d’archivio dei suoi anni da Lvmh».
E che MacDonald non abbia un particolare interesse nella moda è visibile, considerato che l’apporto incalcolabile che Galliano ha dato in questo campo – tra vette insuperabili e abissi senza fine – è poco raccontato. Un genio sin da ragazzino, dotato di quel talento allo stato grezzo che rifulge appena vengono trovati gli appoggi economici necessari, il documentario si concentra sugli inizi, gli anni alla Saint Martins e quella sua prima collezione, Les Incroyables, di cui tutti nei corridoi della scuola parlavano, ancora prima di aver visto sfilare.
Hamish Bowles, stimato critico di moda e all’epoca studente nella stessa scuola, dirà «è stata una delle cinque collezioni più belle che abbia mai visto». La telecamera analizza il suo debutto da Givenchy e poi la promozione subitanea da Dior, calcando la mano sui dettagli cinematografici. Un esempio? Arnault, a capo del conglomerato Lvmh, che fa accompagnare John ai colloqui con un macchina nera dai vetri antiproiettile (“molto James Bond”) e la segretaria che si rifiuta di farlo entrare al cospetto del “Sultan of chic”, una delle tante definizioni del magnate francese, perché lo stilista sfoggia dei rasta.
Il decennio successivo, quello che poi costituirà la parte sostanziosa della sua voce in un qualunque libro di storia della moda, è quasi ignorato, lasciando studenti della materia e appassionati quasi a bocca asciutta. Questo nonostante tra i consulenti della pellicola figuri Mark Guiducci, creative editorial director di Vogue, e Condé Nast Entertainment sia tra i produttori della pellicola.
Quando viene trasposta sullo schermo, la moda corre spesso il rischio che gli eccessi dei creativi prendano il sopravvento sulle loro opere. Senza arrivare neanche a citare la pantomima da telenovela sudamericana che è stata “The House of Gucci”, di Ridley Scott, basti pensare a “The assassination of Gianni Versace”, che nelle mani di quel profeta del camp di Ryan Murphy è diventato un thriller omo-erotico.
Oppure “Halston”, la serie Netflix prodotta sempre da Murphy con protagonista Ewan McGregor nei panni del couturier americano che ha fatto da faro a tutti quelli che sono venuti dopo (Tom Ford su tutti, talmente ossessionato da Halston da volerne acquistare la casa). Un prodotto, “Halston”, che si concentra esclusivamente sui vizi privati dello stilista, riducendo a quelli la misura della sua grandezza. Forse è anche per questo che il pubblico generalista guarda con un certo scetticismo gli addetti ai lavori della moda, che hanno eletto a loro santini personaggi egocentrici e dall’incomprensibile valore storico.
Quando i protagonisti sono ancora in vita e vogliono invece raccontarsi con la propria voce, si sfiora l’agiografia (di cui “High & Low” è fortunatamente privo). Un esempio su tutti? “The Supermodels”, il recente documentario prodotto da Apple sulle carriere di Linda, Naomi, Cindy e Christy, donne alle quali non sono mai serviti i cognomi per presentarsi al mondo. Un racconto mono-tono (ma anche monotono), privo di qualsivoglia contraddittorio che soprassiede alla tendenza di Naomi a lanciare telefoni contro le sue assistenti, così come alle dipendenze molteplici di Linda Evangelista, dimenticandosi di chiederle come avesse fatto a non capire di avere in casa un marito poi accusato di essere uno stupratore seriale.
Si parla qui di Gérald Marie, a capo dell’Elite model management di Parigi, scagionato a febbraio dalle accuse in quanto, secondo la legge francese, i fatti sarebbero avvenuti troppo tempo addietro per essere perseguibili (la storia è invece splendidamente raccontata dal documentario Sky “Scouting for Models – Il volto oscuro della moda”).
Le uniche eccezioni a questo teorema sono stati gli ottimi documentari “Kingdom of Dreams e McQueen” (2018), dedicato allo stilista inglese. E proprio la vita (ma soprattutto la morte) di Alexander McQueen vengono citati spesso in “High & Low” come “cautionary tale”, una sorta di avvertimento di come sarebbe potuta finire per John. Quest’ultimo, al posto di togliersi la vita opta per uno scenografico suicidio sociale, quando, sotto l’effetto di farmaci e alcool, esplode in epiteti antisemiti contro i suoi vicini di tavolo al caffè La Perle. Insulti che lo porteranno al licenziamento istantaneo e a una breve damnatio memoriae, prima di tornare a disegnare (da Martin Margiela, di proprietà dell’italiano Renzo Rosso, ndr).
Le note che in questo documentario hanno maggiore importanza, però, sono quelle stonate, le dichiarazioni “negazioniste” di chi non vuole rendersi conto della tossicità di un sistema che, in nome del profitto, impone a Galliano la creazione di trentadue collezioni l’anno.
È il caso di Sidney Toledano, che pur avendo perdonato personalmente Galliano per gli insulti antisemiti (Toledano è ebreo, ndr) e avergli riaperto le porte dell’archivio Dior dopo più di dieci anni, sostiene come «non sia stato il carico di lavoro a influire sul tracollo di Galliano, ma i suoi demoni personali». Un po’ ingenuo da parte di un uomo tra i più potenti in assoluto nel mondo della moda (oggi è Ceo di Lvmh e anche presidente della Camera della moda francese), fidato del patron Arnault. Lo stesso Arnault che, in occasione della morte del padre di Galliano, gli presta un jet privato per partecipare alle esequie e rientrare a Parigi il giorno dopo, per non rinunciare ai fitting della successiva sfilata.
Da allora, nonostante una pandemia e le richieste dei gruppi ambientalisti di ridurre i volumi della produzione, poco è cambiato: i designer sono sottoposti a una quantità spropositata di stress, con l’obbligo di produrre (e vendere) sempre di più. La loro salute mentale è messa a dura prova, con un alcolismo altamente funzionale percepito come un male minore in una carriera di successo. Se il modus operandi è quindi rimasto lo stesso, non si può davvero dire di aver imparato molto dalla storia di Galliano, che comunque – nelle parole della giornalista premio Pulitzer Robin Givhan – «è un uomo bianco con amici potenti» (e sullo sfondo passano le immagini di Anna Wintour, da sempre sua grande sostenitrice).
Il documentario ha il pregio però di non fare sconti a nessuno. Rimane lo sguardo di Galliano che sembra rivolgersi in un ipotetico confessionale, direttamente allo spettatore: la fragilità evidente di un uomo che fa fatica a ricordare dettagli passati (annebbiati dall’abuso di alcol) e l’ombra di un professionista che ha segnato un prima e un dopo nella moda sono tutto ciò che resta, come se il climax della sua vita fosse riassumibile in una sola notte disgraziata. Fortunatamente, chi conosce il fashion system sa che il gitano con l’amore per il teatro, e l’ossessione per Napoleone Bonaparte, è stato molto di più. Per scoprirlo, però, ci toccherà aspettare i libri di storia della moda.