Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Etc dedicato al fashion system, cliccate qui.
La notizia che Kering ha acquisito il trenta per cento di Valentino per 1,7 miliardi di euro è stato l’ultimo colpo di coda della moda prima che iniziasse l’estate, e tutti si decidessero a dedicarsi, finalmente, alle vacanze agostane, riflettendo comunque sul fatto che c’è un accordo tra Kering e Mayhoola, il fondo qatariota attualmente proprietario di Maison Valentino: se lo volessero, i francesi potrebbero acquisire il cento per cento del capitale sociale del brand non oltre il 2028.
Più in sordina, qualche giorno dopo, MFF ha fatto sapere di essere in possesso di informazioni secondo le quali sempre Kering avrebbe rilevato il quarantanove per cento della maison di gioielleria italiana Vhernier. Rumors che mentre scriviamo non sono stati confermati dai portavoce ufficiali del conglomerato. Ma tanto è bastato per riaccendere, anche sotto il sole del mese più caldo, una discussione che tra gli addetti ai lavori torna ciclicamente, come le tendenze sulle passerelle: in cosa si è trasformato il mondo della moda negli ultimi trent’anni? Sarebbe diventato quello che è oggi, il gigante tentacolare che tutto ingloba e tutto asserve ai suoi desideri, celebrities e pop star incluse, senza l’apporto di Arnault e Pinault? Come è stato possibile trasformare una penisola di brand a gestione familiare, tutti in crisi d’identità sul finire degli anni Ottanta, in gigantesche macchine da soldi capaci di influenzare profondamente la pop culture?
Per capirlo, non si può che tornare alle basi, a quel 1984 nel quale tutto è iniziato, perché questa puntata è un po’ una storia nella storia. La moda di oggi, nel bene e nel male, non esisterebbe sotto questa forma se non fosse stato per due imprenditori visionari, entrambi francesi, che hanno capito prima di tutti gli altri la rilevanza del lusso e il suo potenziale economico. Succession con un po’ di epica à la Game of Thrones, epopee delle quali Bernard Arnault e François Pinault, a capo di Lvmh e Kering, i primi due conglomerati di lusso al mondo, sarebbero gli indiscussi protagonisti.
Il primo è, a periodi alterni, l’uomo più ricco del mondo per spiegare la vastità dell’impero che è riuscito a creare, quell’Lvmh che sta per Louis Vuitton Moët Hennessy, solo alcuni dei circa settantacinque brand che possiede (tra gli altri sono di sua proprietà Fendi, Givenchy, Marc Jacobs, Dior, Kenzo, Celine, Sephora, Princess Yachts e Bulgari). Inutile tentare di quantificare la sua ricchezza, anche se il patrimonio netto è stimato sui duecentoventi miliardi (secondo solo ad Elon Musk, che ne vale duecentotrentadue).
I freddi numeri non possono restituire la quantità di case, barche, maison e opere d’arte che possiede: il 24 aprile di quest’anno, LVMH è diventata la prima azienda europea a raggiungere la valutazione di cinquecento miliardi di dollari. A luglio è arrivata la notizia che il conglomerato si è preso, letteralmente, le Olimpiadi francesi del prossimo anno con un accordo di sponsorship di centocinquanta milioni di euro (secondo Bloomberg, una cifra che rappresenta il dieci per cento di tutte le sponsorizzazioni private che coprono quasi la totalità dei costi dell’evento): le medaglie saranno realizzate dal marchio di gioielleria Chaumet, Moët Hennessy, fornirà vini e alcolici, Dior, Berluti e Louis Vuitton saranno coinvolte in maniera non ancora del tutto specificata.
Un impero mastodontico che Arnault ha costruito con perizia: nato nel 1949 in una famiglia della buona borghesia della provincia francese, il padre possiede un’impresa di costruzioni, la Ferret-Savinel. Lo manda alle scuole d’élite cattoliche, mentre la madre gli insegna a suonare il piano. Entra in società con il padre e lo convince a riconvertire l’azienda in promozione immobiliare, si sposta in America e fonda la Férinel Inc. La svolta però arriva nel 1984, quando, ormai presidente della società, intorno al tavolo della casa di Roubaix arredata in stile Biedermeister, con tovaglie floreali e ceramiche esposte come quadri, si decide ad acquistare il gruppo Boussac, un’azienda del tessile che in quel momento navigava in cattive acque. Il gioiello della corona non è tanto Boussac, quanto una maison che Boussac possiede, Christian Dior.
Nonostante le rassicurazioni, con uno stile da finanziere americano di Wall Street, Arnault rivenderà presto Boussac e tutte le altre attività di cui non gli interessa, tenendosi solo Christian Dior e Le Bon Marché. «Mi disse che all’epoca di Boussac aveva licenziato circa ottomila dipendenti», confida la giornalista Dana Thomas che ha intervistato Arnault diverse volte, nel documentario The Kingdom of dreams, disponibile su Sky.
«Arnault è come quel giocatore del Monopoli che vuole ogni proprietà del tabellone, e non si ferma finche non è così» ammette Thomas. E infatti negli anni successivi Arnault inizia ad acquisire altri brand, che in quegli anni erano in crisi d’identità, da Louis Vuitton a Givenchy, estromettendo poi dai brand stessi famiglie fondatrici e designer, mosse da consumato uomo d’affari educato alla mancanza di scrupoli negli anni di formazione americana, che gli faranno guadagnare il nomignolo “the deluxe terminator”. Formata LVMH negli anni Ottanta, continua con lo shopping delle maison: nel 1988 arriva Cèline, nel 1993 Berluti e Kenzo, nel 1996 Loewe, nel 1997 Marc Jacobs.
La mossa successiva è mettere a capo di queste maison creativi giovani, capaci di infondere nuova linfa vitale, rendere queste maison prestigiose ma impolverate di nuovo desiderabili. Così il giovane John Galliano arriva da Givenchy e, dopo aver provato il suo talento, diventa direttore creativo di Dior; al suo posto nella maison francese fondata da Monsieur Hubert de Givenchy, approda il ragazzo terribile delle periferie inglesi, Alexander McQueen. Da Louis Vuitton, infine, si nomina come direttore creativo l’americano Marc Jacobs. Scelte visionarie che però da sole non bastano.
Il salto di qualità arriva con un’intuizione che cambierà per sempre gli assetti dei brand: la scoperta del potere delle borse. Una scoperta arrivata per caso, quando la première dame francese regala a Lady Diana una borsa di Dior, all’epoca chiamata Chouchou, in occasione dell’apertura della mostra dedicata al pittore Paul Cézanne al Grand Palais. La principessa del Galles si innamora di quel quadrato in pelle con impunture cannage e la indossa in più di un’occasione ufficiale. Ben prima della scoperta dell’influencer marketing, Diana lancia le tendenze, e le clienti impazziscono: le vendite di quella borsa, che da allora in poi sarà rinominata Lady Dior, salgono alle stelle, e Arnault capisce che i veri guadagni, i milioni, anzi no, i miliardi, si realizzano con gli accessori, oggetti con il più alto margine di ricavo. Se per realizzare una borsa, ad esempio, un brand spende cento euro, quel prezzo viene poi ricaricato del venti, trenta per cento in media, arrivando a costare duemila euro, consentendo un enorme guadagno.
L’arrivo sulla scena di quello che poi diventerà l’unico rivale alla sua altezza è nel 1999. Fino ad allora Arnault e Pinault si conoscevano in quanto imprenditori, intrattenevano forse rapporti cordiali, ma François Pinault, classe 1936, viene da un emisfero totalmente diverso: figlio di un imprenditore del legname, a sedici anni lascerà gli studi in un piccolo paesino rurale del nord della Bretagna per aiutare il padre con la sua impresa. Passerà dalla produzione alla commercializzazione del legname, fino ad arrivare alla vendita e alla distribuzione: per questo motivo inizia ad acquistare catene come Conforama (arredamento), La Redoute (ordini via mail), i magazzini Printemps e la Fnac. Il gruppo così composto nel 1993 si chiama PPR (Pinault – Printemps – Redoute).
In quegli anni Arnault era già attivo nella moda, qualcuno dei suoi gli aveva proposto di interessarsi a Gucci, ma il brand, guidato da una famiglia sgangherata, divisa, non più rilevante, non sembra al magnate un acquisto intelligente. Ci ripenserà quando, qualche anno dopo, alla direzione creativa sarà nominato Tom Ford che già era a capo della maglieria del brand, e lo trasformerà nella global sensation dell’epoca, lanciando uno stile che verrà poi definito come porno-chic, insieme alla stylist Carine Roitfield, alla macchina fotografica di Mario Testino, ma soprattutto grazie all’alleanza con l’amministratore delegato del brand, l’italiano Domenico De Sole.
I due sono uniti da un rapporto di profonda stima e fiducia, e il successo di Gucci in quegli anni è dovuto principalmente al perfetto equilibrio tra visione creativa di Ford e strategia di De Sole. Arnault, inizia così, in sordina, ad acquistare quote del brand, comprandole anche da Patrizio Bertelli, marito di Miuccia Prada (e chissà perché Bertelli le aveva acquisite, se aveva progetti di creare un gruppo italiano del lusso, e perché li ha abbandonati). Quando arriva al trentaquattro per cento delle quote, De Sole e Ford cominciano a preoccuparsi di quello che i giornali definiscono un creeping takeover.
Gucci per loro è casa, lo gestiscono come se fosse un brand di loro proprietà, anche se non lo è, e l’arrivo di un nuovo proprietario con la fama di Arnault metterebbe in discussione l’assoluta libertà di cui godono in quel momento. Lo spiega lo stesso De Sole nel documentario The Kingdom of dreams. «In maniera informale lo incontrammo, e gli chiesi quante quote di Gucci aveva acquistato» dice De Sole. «Quando lui mi rispose “non ricordo”, iniziai a insospettirmi». Per fermare la cavalcata di Arnault verso la conquista del brand, l’ex amministratore delegato spiega che si inventò una stratagemma: «Più Arnault acquistava quote di Gucci, più noi emettevamo quote a favore dei dipendenti, diluendo la rilevanza di quelle acquistate da lui».
Una mossa per prendere tempo, cercare di far desistere Arnault, che di certo si stizzisce, e porta la questione di fronte ai tribunali. De Sole e Ford sanno che Arnault non desisterà, che rischiano il futuro come lo avevano immaginato, si mettono alla ricerca di un white knight, un cavaliere bianco, un termine che nel gergo economico sta ad indicare un imprenditore capace di arrivare in soccorso, per salvare un’azienda da un’acquisizione indesiderata. Nessuno sembra avere la potenza, o anche solo il desiderio, di inimicarsi Arnault, fin quando, in estrema segretezza, De Sole incontra Pinault. I due si piacciono, Pinault è un uomo schietto, l’opposto dell’enigmatico e pacato Arnault. «La sua storia mi piace, comprerò l’azienda», dice a De Sole dopo quel primo incontro. Nel 1999, viene organizzata una conferenza stampa a Parigi, poco distante dal quartier generale di Lvmh: ai giornalisti non viene comunicato il motivo dell’incontro, tutto è avvolto nel più grande riserbo.
Lo stupore raggiunge il climax quando Tom Ford, De Sole e Pinault annunciano la nascita del gruppo Gucci: Pinault non ha acquistato solo il marchio fiorentino, ma anche Yves Saint Laurent, trasformandosi istantaneamente, nell’avversario numero uno di Arnault. «Con Pinault siamo in rapporti amichevoli, avrei preferito che me ne avesse parlato prima» concederà Arnault ai microfoni delle tv. «Quando si dichiara guerra, non si comunica di certo luogo e ora dell’attacco» risponderà lui serafico. E allora, la guerra inizia davvero, tra il Serpente e il Leone, così verranno chiamati dalla stampa specializzata Arnault e Pinault. Il primo strategico, attento ad ogni mossa, riflessivo, il secondo impulsivo, abituato a prendere decisioni sull’onda di sensazioni a pelle, che negli anni successivi acquisterà Balenciaga, Alexander McQueen, Bottega Veneta, Boucheron e Pomellato.
Arnault incassa ma nell’intervista che rilascerà poco dopo a Dana Thomas, svela le carte: c’è un audio, ripreso in Kingdom of dreams nel quale si sente il magnate vaticinare: «A volte il cavaliere bianco può trasformarsi in un cavaliere nero. Vediamo quanto durerà». Parla di Pinault, ovviamente, e forse parla anche di se stesso, definito non solo ormai, “the deluxe terminator”, ma anche, più elegantemente, “the wolf in cachemire”, il lupo vestito di cachemire. Perché questa storia ha a che fare con i soldi, certo, ma anche con il potere, con il bisogno di due uomini visionari di controllare, definirsi rispetto all’altro, al mondo, e forse anche a se stessi. Il triumvirato De Sole – Ford – Pinault durerà infatti solo pochi anni: il francese non è da meno del suo connazionale in quanto a desiderio di controllo ed è abbastanza contrario a tutte le libertà che De Sole e Ford continuano a prendersi. I loro contratti, in scadenza nel 2003, non verranno mai rinnovati.
Sorti dei direttori creativi a parte, un ulteriore balzo al business della moda, che contribuisce a darle la forma che ha oggi, è ad opera di Marc Jacobs. L’americano pensa ad una collezione di borse creata in colab con l’artista newyorchese Stephen Sprouse, uno tra i suoi creativi preferiti. Le Vuitton con i graffiti realizzati da Sprouse del 2001 diventano subito una tendenza: il simbolo del lusso estremo, apparentemente dissacrato con un’attitudine streetwear, e tradotto anche su sneaker e scarpe col tacco, fa balzare i profitti di Vuitton, creando per la prima volta una lista d’attesa per un prodotto della maison, facendo impazzire i clienti asiatici.
Nasce così il concetto di co-lab come è inteso oggi: l’aggiunta allo scintillio della maison, di un nome noto, proveniente da un altro mondo artistico, che può giustificare, grazie solo alla sua presenza nel progetto, un prezzo di cartellino spropositato, un concetto con il quale siamo divenuti fluenti oggi, e chissà, forse ce ne siamo anche un po’ stancati. La colab in quel caso però, porta Arnault a rendersi conto dell’immenso potenziale del mercato cinese, un miliardo di persone uscite da qualche anno dal comunismo e desiderose di accaparrarsi il lusso europeo. Una gallina dalle uova d’oro, un mercato intatto, vergine, pronto ad essere conquistato. Da quel momento in poi, lo scontro evidente tra i due passa su altri territori: se sulla moda LVMH ha iniziato prima del gruppo Kering (che prenderà questo nome nel 2013, sostituendosi al vecchio Gruppo Gucci) e di conseguenza, con più brand nel suo portfolio fattura di più (settantanove miliardi di euro nel 2022, contro i 20,3 milioni di Kering nello stesso anno), i due condividono altre passioni, altri terreni sui quali confrontarsi.
Entrambi amanti dell’arte, ognuno ha la propria fondazione. Pinault, che su questo territorio ha iniziato prima, spinto ad appassionarsi dalla sua seconda moglie Maryvonne Campbell, espone la sua infinita collezione di Manzoni, Cattelan, Fischer, Hirsch, Koons e Warhol tra la Bourse de Commerce a Parigi e Palazzo Grassi a Venezia (la prima location è di proprietà del comune parigino ma affidata in gestione per cinquant’anni ad Artémis, holding controllata da Pinault, mentre la seconda è stata acquistata dal francese nel 2005). Arnault d’altra parte ha la sua Foundation Louis Vuitton a Parigi. Nel frattempo però, non si perdono mai di vista, controllano gli affari e gli investimenti dell’altro, la presenza dei brand del conglomerato concorrente sulle altre riviste, direttamente proporzionali alle pagine di pubblicità acquistate.
Un meccanismo, quello dell’acquisto delle pagine pubblicitarie sui magazine patinati ma anche sui quotidiani, che porterà milioni nelle casse delle case editrici maggiori, trasformandole però negli anni nelle mere esecutrici materiali dei loro desideri, prive di una qualsiasi identità, di un qualsiasi potere di disintermediazione, disposte nella maggior parte dei casi a soggiacere ad ogni loro desiderio: è il caso della famosa policy del total look, quella secondo il quale il pantalone di una certa maison può essere scattato sulla copertina della rivista, solo se in accoppiata alla camicia con la quale quel pantalone ha sfilato in passerella, cancellando così l’apporto creativo dello stylist che, magari, quel pantalone l’avrebbe abbinato ad una blusa di un altro brand. Capaci di cambiare il modo nel quale i giornali comunicano, Pinault e Arnault hanno però influenzato i desideri e gli acquisti non solo di quanti quelle borse e quei vestiti a prezzi spropositati potevano permetterseli, ma anche del pubblico di massa.
Lo hanno fatto intelligentemente quando hanno deciso di aprire, parallelamente ai brand, i settori beauty e profumi: fragranze per il corpo e rossetti che, nella maggior parte dei casi, non esistevano ab originem quando quei brand furono fondati. D’altronde se i portafogli non permettono l’acquisto di una borsa da duemila euro, un rossetto Rouge Dior (prezzo medio odierno: quantacinque euro) corredato da astuccio personalizzato o ricarica può rappresentare un succedaneo accettabile di un mondo dai prezzi inaccessibili ai comuni mortali.
L’illusione di appartenere a un mondo fatato che passa sugli schermi dei nostri telefoni durante le fashion week o le immagini di archivio di Audrey Hepburn con l’abito di Givenchy in Colazione da Tiffany, si sublima con un fard o una palette occhi che ci faranno sentire più vicine a quel regno dei sogni dove tutti sono magri, eleganti, felici. Se agli albori la produzione di queste linee beauty era concessa in licenza ad enti terzi, da sempre esperti nel reparto beauty e make up, come l’Oreal o Coty ad esempio, oggi i profitti sono talmente alti che i pochi brand rimasti indietro, creano delle linee di profumeria ex novo, mentre i conglomerati internalizzano ciò che avevano già: a febbraio di quest’anno è nata Kering Beautè, divisione specifica dedicata a questi prodotti e che raggruppa Bottega Veneta, Pomellato, Balenciaga, McQueen e Qeelin.
Gucci è fuori da questo mini-conglomerato in quanto la sua divisione beauty è gestita in licenza da Coty, una licenza che scadrà nel 2028 e che siamo certi non sarà rinnovata: è stato il figlio di Pinault, François-Henry, amministratore delegato di Kering dal 2005, a farlo capire in una conferenza stampa del 2020, quando ammise di non essere soddisfatto dei progressi: «Il potenziale è enorme. Siamo molto delusi dalla velocità con cui questo potenziale viene sfruttato». Anche in questo settore, Pinault ha già iniziato a fare shopping: a giugno è stato rilevato il cento per cento della Maison Creed, fondato duecentocinquanta anni fa da Sir Henry Creed.
Per far comprendere a tutti, però, il potenziale di ricavi che possono arrivare dal settore beauty, basta una informazione: quando il brand Tom Ford è stato venduto, lo scorso novembre, a comprarlo non è stato Lvmh o Kering – anche se sicuramente degli interessi c’erano, ma chissà se poi Ford avrebbe permesso la vendita a Pinault, con i quali i rapporti sono rimasti tesi negli anni. Ad acquisire Tom Ford è stata Estée Lauder che ha visto il potenziale non certo nell’abbigliamento (che infatti sarà realizzato in licenza dal Gruppo Zegna) ma ha sborsato 2,8 miliardi di dollari per i profumi, le candele e i trucchi, per quel Santal Blush dal packaging sobrio e lussuoso, che trasuda, seppur con discrezione, potere e denari in abbondanza.
Un profumo che ci fa sentire protagonisti di uno dei capolavori cinematografici di Ford, intitolati ad una presenza sul set con Colin Firth in A single man, al prezzo di duecentonovantacinque euro per cinquanta millilitri di fragranza. Per questo motivo e per molti altri, non sorprende l’acquisto del trenta per cento di Valentino da parte di Kering, così come ci si aspetta altri acquisti nei prossimi anni. Si parla da sempre del desiderio di Arnault di acquisire Chanel, ma i fratelli Wertheimer, figli del cofondatore del brand, insieme a Coco, non hanno necessità e desiderio di disfarsi dell’eredità paterna.
Non si tratta però qui soltanto di acquistare e massimizzare i profitti, se non si fosse capito il desiderio di questi due uomini e poi, forse, dei loro eredi, ha più a che fare con il potere che con il denaro. Con la sensazione vertiginosa di poter decidere delle sorti di un brand, del suo designer, dei suoi dipendenti. Giocando a scacchi con il capitalismo, e anticipandone, ogni volta, le mosse. E forse non ha senso chiedersi come sarebbe andata, se le maison fossero sempre e solo rimaste piccole attività famigliari, probabilmente destinate a fallire e sbiadirsi negli anni, prive di guide carismatiche come quelle dei loro fondatori.
Vale la pena augurarsi però, che di uomini così visionari e coraggiosi, al netto dei difetti, ne nascano di più: perché il duopolio attuale comincia a togliere il respiro e ci illude che un mondo della moda, al di fuori degli universi di Lvmh e Kering, non possa esistere. E invece, chissà, forse, di un’alternativa, oggi più che mai, abbiamo disperatamente bisogno. Forse potrebbe essere Tapestry, il conglomerato americano proprietario di Kate Spade, Stuart Weitzman e Coach, che il 10 agosto, stupendo i mercati, ha acquistato per 8,5 miliardi di dollari Capri Holdings, altro gruppo americano che aveva nel suo portfolio Jimmy Choo, Michael Kors, ma soprattutto Versace. Se dovesse succedere però, lo scopriremo solo tra qualche anno.