Sulla fotografia Il dolore degli altri e i pornografi delle immagini di guerra

È veramente necessario vedere i video dei bambini israeliani decapitati per comprendere la gravità dei crimini compiuti da Hamas?

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Se permettete partiamo da un verbo. Il verbo che, nel 1973, Susan Sontag utilizza per parlare del rapporto tra la fotografia di qualcosa e le prove di quel qualcosa. Sì, è il 1973, non mi sfugge che fosse cento epoche fa: poi ci arriviamo. Prima il verbo.

Il 18 ottobre del 1973, tra una settimana sono cinquant’anni giusti, Sontag pubblica sulla New York Review of Books “Photography”, il primo dei saggi che poi verranno raccolti nel libro che più amano citare coloro che vogliono parlare del peso delle immagini, e che sono abbastanza novecenteschi da pensare sia importante avere una bibliografia: “Sulla fotografia” (in Italia lo pubblica Einaudi).

Il mondo delle immagini è, in cinquant’anni, cambiato così radicalmente che qualunque cosa scriva Sontag cinquant’anni fa ha, per decodificare l’attualità, il valore che può avere un trattato sulla guerra scritto prima dell’invenzione delle armi da fuoco.

Era cambiato abbastanza, a Sontag ancora viva, da farle trent’anni dopo, vent’anni fa, pubblicare le sue mutate opinioni sulle immagini di guerra in “Regarding the pain of others”; e comunque anche vent’anni fa sono duecento, per il nostro rapporto con le immagini. Ma non vi sarete già dimenticati del verbo.

Quando parla di cosa aggiungano le immagini ai fatti, Sontag dice che le fotografie «furnish» le prove, un verbo che in seconda media avreste tradotto senza esitazione con «forniscono», ma poi in terza vi hanno regalato il vocabolario dei false friends e avete scoperto che può voler dire «arredano».

Il disordine m’impedisce di trovare dentro casa la traduzione italiana, e quindi non so per che sfumatura abbia optato il traduttore; ma, poiché era Susan Sontag e non Bellicapelli Giambruno, azzardo che la sua scelta d’una parola ambigua non fosse accidentale.

Tutta questa premessa dovrebbe sfociare in qualcosa tipo «sarà superata Sontag, ma ancora più superato è Tesich», ma prima di arrivarci vorrei fare una pausa nel culturale per dire l’unica cosa che davvero m’interessi dire in questa paginetta, ovvero: ma siete scemi?

Ma veramente da giorni vi state accapigliando sul tema «hanno davvero decapitato dei neonati, e di questi neonati decapitati esistono delle foto»? Siete veramente così masochisti da voler vedere foto di bambini decapitati? (Poi per forza aumenta esponenzialmente la vendita di benzodiazepine).

E voialtri, non pensate vi stia assolvendo: siete veramente così melodrammatici da pensare che il ricatto emotivo «hanno decapitato dei neonati» vi faccia vincere la discussione social? Dov’è il confine? Se hanno decapitato dei trentenni è meno grave? Se hanno ucciso neonati senza decapitarli è peccato veniale?

Ho visto gente altrimenti intelligente dibattere a colpi di «L’ha detto Biden», «L’ufficio stampa della Casa Bianca ha ritrattato», «Forse li hanno ammazzati senza decapitarli», e altre posizioni da seconda media tutte figlie d’un tempo così fondato sui posizionamenti che non è ammesso dare nulla per scontato: se non scrivi chiaramente che disapprovi la decapitazione di neonati, ci viene il dubbio che per te sia un hobby come un altro.

L’altro giorno il padre di Daniel Pearl ha twittato che il figlio avrebbe compiuto sessant’anni. Mi sono resa improvvisamente conto che ne sono passati ventuno dalla sua decapitazione, e che io già allora mi volevo abbastanza bene da non guardare mai certe immagini. In “Davanti al dolore degli altri” Sontag scriveva che il video era stato tagliato per farla sembrare una decapitazione senza contesto invece che un manifesto politico, e io sono più che sazia dell’aver letto la sua interpretazione: non mi servono le illustrazioni, grazie.

Alcune scuole ebraiche americane, riferiscono, avrebbero mandato una circolare raccomandando ai genitori di disinstallare TikTok dai telefoni dei figli per evitare che vedano le immagini più truculente di torture ed esecuzioni postate da gente abbastanza bestiale da essere in guerra (una volta che sei così disumanizzato da trucidare il nemico, la riproduzione per immagini fa qualche differenza?).

Vastissimo programma, quello d’impedire a ragazzini con un telefono in casa e connessioni ovunque l’accesso alle immagini (neanche serve precisare che qualunque ragazzino con sane pulsioni di curiosità vorrà tanto più vedere quello snuff movie che sono le immagini di guerra quanto più glielo vieti: la guerra è il nuovo porno, assai più desiderabile visto che nessuna scuola raccomanda di disinstallare YouPorn – almeno credo).

Steve Tesich è l’autore di “Karoo”, un romanzo la cui prima metà è stupenda e che dovreste recuperare se non l’avete mai letto (lo pubblica Adelphi, non c’entra niente con questo discorso, o forse sì visto che il protagonista lavora nel luogo che è stato principale produttore d’immagini nell’ultimo secolo: Hollywood).

È anche quello che, più di trent’anni fa, usò per la prima volta in modo contemporaneo un concetto che già avevano approcciato alcuni venerati maestri, da Hannah Arendt in giù: quello della post-verità. Solo che allora post-verità significava una cosa più facile e che potevamo illuderci fosse curabile: non c’importava più cosa fosse vero e cosa no.

Gli scandali avevano smesso di scandalizzarci, se non per il quarto d’ora in cui li tenevamo in caldo (cosa fu Tangentopoli, se non lo scandale du jour d’una fine secolo più lenta di questi anni qui: un paio d’anni d’indignazione, e poi si riparte dal via dopo aver ritirato le ventimila).

Adesso, centoventi slittamenti semantici più tardi, viviamo nella post-verità non perché non c’interessi la verità (che comunque non c’interessa); ma perché ci è proprio impossibile conoscerla. Quando opinavano Sontag e Tesich, non esistevano i deep-fake, non esisteva l’intelligenza artificiale, le uniche falsificazioni iconografiche avvenivano per omissione. Sontag cinquant’anni fa scriveva che il pubblico americano non sarebbe stato così a favore della guerra in Corea se avesse visto le immagini della devastazione delle vite dei coreani.

Ma oggi osserverebbe – non perché io pretenda di sapere cosa scriverebbe Sontag, ma perché è un’osservazione così ovvia che riesco a farla persino io – che le immagini dei bambini decapitati, se venissero infine diffuse (speriamo di no), verrebbero liquidate come un probabile falso da chi tifa di là; così come le immagini di quel disastro istituzionalizzato che è la quotidianità nei territori occupati verrebbero attribuite a una sofisticata falsificazione da chi tifa di qua.

C’entra la propaganda bellica, certo: ma ai tempi di Leni Riefenstahl un falso era grossolano; quest’anno, abbiamo passato giorni a commentare le foto del papa in piumino da sci, essendosi la tecnologia evoluta abbastanza da produrre immagini tecnicamente perfette, e la nostra intelligenza naturale essendo regredita abbastanza da aver smarrito i parametri del verosimile.

Ho salvato una storia Instagram d’un giornalista italiano, qualche giorno fa. Diceva così: «Ho notato una cosa. Sabato mattina mentre succedevano cose orribili c’erano video e foto in diretta su Telegram. Su Instagram il meccanismo automatico di censura non fa vedere nulla. C’è il rischio di restare intrappolati in un universo fatto di borseggi in metro e ricette con il pistacchio».

Se non lo vedi non esiste? Siamo sicuri? Siamo una generazione (il giornalista è non molto più giovane di me) rovinata da Vermicino? E, se abbiamo bisogno del visual anche noi grandi, che speranze possono esserci per una generazione cresciuta con le telecamere nel telefono e abituata a documentazioni per immagini di qualunque cosa succeda?

Era così anche prima? Forse sì: Orwell un secolo fa doveva vedere il soldato che scappava reggendosi le braghe, per capirne l’umanità, era l’immagine che cambiava la percezione. E da Sontag saranno passati pure cinquant’anni, ma le sue riflessioni sulle immagini partivano da quell’esaustiva intuizione di duemila e quattrocento anni fa sulle immagini alle quali crediamo più di quanto crediamo alla realtà: le ombre sulle pareti della caverna di Platone.

Le dinamiche umane son sempre le stesse, certo. Però fa comunque impressione vedere la diatriba che arreda questa settimana i social; quella tra i pornografi del «fatemi vedere le foto dei bambini decapitati se volete che vi creda, e anzi se me le date in 3D mi metto gli occhialetti da film Marvel per guardarle meglio», e gli altrettanto pornografi del «se non credi ai bambini decapitati significa che tutto sommato non ti dispiace l’idea che vengano trucidati, e anzi sono abbastanza certo che tu la notte faccia dei sabba augurandoti che ci sia sempre una guerra con cui sollazzarsi».

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