Chiedi chi erano i Beatles, o almeno googlaIl tempo in cui si può rivendicare il diritto di non sapere un cazzo

C’è chi, vedendo SanPa su Netflix, scopre che negli anni 80 in Italia ci si faceva di droga. Quand’è che è diventato normale essere pesci rossi, convinti che l’anno zero della storia dell’uomo sia stato quando abbiamo fatto il nostro primo status su Facebook e che tutto ciò che non si declina al presente sia nostro dovere ignorarlo?

La prima volta era Vermicino.
Era qualche anno fa, ero a una cena alla quale avevano messo su un disco dei Baustelle (di tanto in tanto vado a cene dove si mangia male e si ascolta peggio), e una venticinquenne appena uscita da una di quelle facoltà che t’insegnano la televisione disse che lei non aveva idea del tema della conversazione di noi grandi.

Noi grandi che, sentendo la canzone su Vermicino, ci eravamo messi a rievocare.

Fu la sera in cui capii che non solo puoi laurearti in scienza delle merendine, ma puoi farlo anche senza conoscere le merendine (come ti laurei in discipline dello spettacolo ignorando il più importante evento televisivo italiano del Novecento?); ma, soprattutto, fu la sera in cui, prima che venisse codificata da Gomorra, scoprii che c’è una generazione che ritiene proprio diritto non sapere un cazzo («nun sape mai nu cazz’», diceva il padre di Genny Savastano a proposito del figlio).

Esalavo ma come non sai cosa sia Vermicino, ma dove hai vissuto, ma santiddio, e la tapina rispondeva: ma io non ero nata.

È da quella sera che mi balocco con l’idea di scrivere un film in cui la me diciassettenne esce dal cinema dove ha visto Nato il 4 luglio sconvolta: non lo sapevo che c’era stato il Vietnam, non era sul sussidiario, non ci siamo arrivati col programma, non ero nata.

Naturalmente non era un concetto nuovo. Quando Fran Lebowitz disse a Martin Scorsese che un ventenne ha diritto di vedere un’opera e trovarla un capolavoro perché ignora i cent’anni precedenti di storia dell’arte e non sa che quell’opera è derivativa, era il 2010. Quando Roberto Roversi scrisse il testo di Chiedi chi erano i Beatles («sì sì, conosco Hiroshima, ma del resto ne so molto poco, ne so proprio poco»), era il 1984. (Il ventenne del 2021 non conosce Roberto Roversi, giacché non era nato, né Fran Lebowitz, giacché non aveva ancora lo streaming sul telefono).

Con questa generazione sembra peggio perché ci sono i social, e una volta noi adulti l’ignoranza dei ventenni non ce la saremmo dovuta sorbire se non nel caso di quell’autolesionismo denominato riproduzione? O sembra peggio perché hanno in tasca un telefono, e nel telefono una biblioteca universale, e tuttavia continuano a pigolare che chi sono mai questi Beatles, cos’è mai questa Vermicino? O sembra peggio perché ormai abbiamo deciso che non sapere niente va benissimo, non c’è bisogno di bluffare?

Quando la scrittrice mia coetanea annuncia un articolo su Britney Spears spiegando ai suoi amici di Facebook che non sapeva nulla della vicenda che la riguarda e che sta da due anni sui giornali americani, ma prima di scriverne ha cercato su Google, lo fa perché la nuova moda è ostentare le lacune?

Là dove noi retrogradi ci chiudevamo in bagno a googlare, per non far brutta figura quando alle cene si affrontava un tema a noi ignoto, ora c’è una città di gente che segue la scuola di Nora Ephron: le tue mancanze, dille tu prima che le scoprano gli altri.

Giorni fa un editore ultrasessantenne ha scritto sui social d’aver appena visto per la prima volta I quattrocento colpi. Mi sono chiesta (mi chiedo ancora) cosa facesse a sedici anni: io li ho avuti un po’ dopo di lui, e se non avessi avuto la cineteca sarei morta di noia; mica c’erano mille canali televisivi e i cellulari e i videogiochi (al bar ce n’era uno di Popeye niente male, ma un po’ ripetitivo).

Ma non gliel’ho detto, ho fatto una qualche battuta e lui ha rivendicato d’esser stato sincero: «Avrei potuto dire “rivisto”». Quindi è questa, la nuova moda: il lacunismo come malattia senile del sestessismo.

Almeno per quelli decrepiti quanto me. Poi ci sono i giovani, e la loro convinzione che ci debba pensare qualcuno. La scuola, lo stato, una app, qualcosa, qualcuno.

«Nessuno ci ha raccontato queste storie», argomentava ieri un trentaequalcosenne spiegando, su Facebook, che lui prima di vedere su Netflix un documentario su San Patrignano ignorava che in Italia negli anni 80 ci fosse il problema dell’eroina.

Era piccolo, porello. Non ci erano arrivati col programma, porello. Che poteva saperne, porello.

Sono passati troppi anni, quindi non ricordo come facessimo a sapere le cose noi. Di sicuro non dalla scuola (tutto il Novecento cadeva sotto «non ci siamo arrivati col programma»). Dai genitori? Dagli amici più grandi? Dai giornali? Dai libri? Da tutto quel che cercavamo smaniosi d’apprendere, non ancora nello stato di saturazione in cui ci ha ridotto il sovraccarico d’informazioni inutili dell’epoca della connessione perpetua?

Quand’è che è diventato normale essere pesci rossi, convinti che l’anno zero della storia dell’uomo sia stato quando abbiamo fatto il nostro primo status su Facebook, e che tutto ciò che non si declina al presente sia nostro diritto ignorarlo?

Ho un amico trentaequalcosenne che cerca di fare come si faceva prima di Netflix e Google: leggere libri, giornali, informarsi sugli eventi di prima della sua nascita anche quando essi non sono protagonisti del prodotto culturale della settimana. Sapere che hanno ammazzato Kennedy prima che il film su Jackie passi al festival. Sapere che c’è stato il 68 anche se non era nato. Avere una vaga idea del colonialismo anche nella settimana in cui l’isteria collettiva non riguarda la statua di Montanelli.

Ogni tanto abbasso la voce e gli dico con tono da Gola Profonda: tu non lo sai perché non eri nato, ma nell’80 misero una bomba alla stazione di Bologna. Da qualche giorno, risponde: ma su Netfix non c’è niente, io come faccio a saperlo? (Meno male che tra qualche giorno su Netflix arriva il nuovo documentario di Scorsese su Fran Lebowitz, almeno sfamiamo i pesci rossi).

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