Israele sta pagando ancora una volta il fio della sua stretta alleanza con gli Stati Uniti. Può sembrare strano, dopo tanti anni, che questo motivo sopravviva ancora e riemerga in ogni occasione dall’es di una significativa parte della sinistra. Lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina, pur di fronte a un dittatore sanguinario come Vladimir Putin, il quale, per di più, ha contribuito a smantellare il comunismo in quella che per decenni è stata la sua patria.
Tuttavia, nei confronti della Palestina c’è qualche cosa di più. Negli ultimi anni nessuno si è preso la briga, da noi, in Europa e ad Harvard di esprimere un sentimento di pietà e un’azione di solidarietà per quella centinaia di migliaia di siriani massacrati da Bashar al-Assad o per la causa dei curdi, mandati a combattere contro lo Stato Islamico poi lasciati alla mercé di Recep Tayyip Erdogan.
La tragedia che vive l’Afghanistan è rimossa, specie per quanto riguarda la cancellazione dei diritti delle donne dopo il ritorno al potere dei talebani. Nessuno ricorda che i peggiori avversari dei palestinesi sono gli altri Stati arabi.
Dopo la spartizione avevano trovato rifugio in Giordania, ma negli anni Settanta (ricordiamo “settembre nero”?) vennero cacciati a cannonate dalla Legione araba e scovati in una guerriglia combattuta casa per casa. Lo stesso successe in Libano. Arafat, poi, ritornò da Oslo con in tasca l’impegno della restituzione del novantasette per cento dei territori occupati, ma arrivato in Palestina, promosse l’Intifada.
I palestinesi sono la popolazione più assistita sulla Terra, senza che ci si chieda mai dove vanno a finire quelle risorse che evidentemente non vengono usate in loro favore. Va da sé che un popolo che soffre merita attenzione e solidarietà. Ma bisognerà pure spiegarsi perché i palestinesi sono i “beniamini” delle tragedie del mondo.
La ragione è sempre più evidente: in gran parte dell’opinione pubblica mondiale l’amore per la Palestina è direttamente proporzionale all’odio per Israele; che poi è una variante dell’odio atavico per gli ebrei. Un odio che è sempre lo stesso, magari sotto altre forme da millenni. I nazisti realizzarono con un’organizzazione industriale e globalizzata quello sterminio che era stato fatto nel corso di secoli in modo artigianale ovunque si fosse inserita, nel tempo, la diaspora. E fu tanto orrendo l’Olocausto che caricò sulla Germania (lo ammettono i leader tedeschi) un crimine contro l’umanità che soverchiava tutti gli altri. Tanto da consentire, oggi, il compianto universale – il 27 gennaio di ogni anno – per gli ebrei deportati e sterminati, senza darsi troppa cura di quelli vivi e decisi a difendersi.
Tutto ciò premesso, non ci si può sentire equidistanti (ovvero pro Hamas, come in Ucraina pro Putin) se si rivolgono delle critiche a Israele, magari le stesse che circolano liberamente sui quotidiani israeliani (in Russia chi critica Putin rischia l’ergastolo o viene condannato a bere la cicuta al polonio). Israele è un Paese diviso. E la divisione della popolazione (sotto gli occhi del mondo) tocca anche l’esercito, perché esercito e popolo sono la stessa cosa.
Basta leggere la dichiarazione di Nir Cohen, un generale della riserva, richiamato in servizio col compito di comandare le truppe dislocate sul confine con la Giordania e l’Egitto: «Difenderò il mio Paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico. Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania, non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. I due popoli che vivono qui, il popolo ebraico e il popolo palestinese, sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta. Da entrambe le parti, una violenta minoranza religiosa trascina il conflitto in una violenza spaventosa. Sì, paragono i leader di Hamas ai leader del sionismo religioso. Da entrambe le parti, una visione religiosa estrema impone comportamenti violenti. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine, entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader. Dobbiamo svegliarci e non lasciare che qui governino gli estremisti. I palestinesi e gli israeliani dovranno denunciare i fondamentalisti. Gli israeliani dovranno spodestare Ben Gabir, Smotrich e la loro banda dal potere, mentre i palestinesi dovranno spodestare i capi di Hamas. In mezzo al dolore terribile e all’enorme frattura, cerco frammenti di speranza. Poco dopo la terribile guerra dello Yom Kippur, fu firmato un accordo di pace tra Israele ed Egitto. Dobbiamo renderci conto che non esiste risorsa di sicurezza più grande della pace. Anche l’esercito più forte non può proteggere il Paese nel modo in cui lo protegge la pace. La via della pace sarà per sempre migliore della via della guerra, quella su cui abbiamo camminato per troppo tempo. Alla fine della guerra, dopo che migliaia di morti israeliani e palestinesi saranno stati sepolti, dopo che avremo finito di lavare via i fiumi di sangue, dovremo capire che non c’è altra scelta che seguire la via della pace, cioè quella dove sta la vera vittoria».
Nella storia politica di Israele nessun premier ha mai voluto governare con l’estrema destra religiosa, che è sempre stata trattata come da noi – nella Prima Repubblica – il Movimento sociale italiano. Se è consentito fare paragoni Benjamin Netanyahu è considerato una specie di Tambroni israeliano. Allo stesso modo, è consentito giudicare in modo oggettivo, con una visione geopolitica anche l’azione del 7 ottobre. Hamas è un’organizzazione terrorista, i suoi miliziani sono degli assassini spregevoli, capaci di delitti abominevoli, ma i loro capi – quelli che hanno preparato l’azione – non sono solo dei criminali di guerra; se è consentito il francesismo, sono anche dei grandi paraculi. Hanno visto che Israele era molto in difficoltà a causa delle sue divisioni interne. E hanno intuito – forse i loro servizi segreti sono stati più efficienti del Mossad – che, alla fine, sarebbero stati gli alleati ad impedire al governo di Israele di impiegare tutta la potenza militare di cui dispone.
Se nelle prime ore si muovevano le portaerei e Antony Blinken si precipitava a Tel Aviv, è bastato che il “gallo cantasse tre volte” perché l’obiettivo divenisse quello di fermare l’offensiva israeliana, nel rispetto delle norme del diritto internazionale sulla proporzionalità della reazione (quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbour gli americani avrebbero dovuto limitarsi a bombardare un porto sulla costa nipponica?) e nel timore di infiammare quell’area importante per tanti ben noti motivi.
Certo, non saremo noi a invitare Israele a farsi giustizia, ma ancora una volta è apparso chiaro che una democrazia deve rispettare delle regole che i suoi nemici non tengono in minima considerazione.
Poi c’è un altro aspetto che non viene considerato, ma che traspare dalla dichiarazione del generale Cohen. Le conseguenze delle stragi del 7 ottobre sull’opinione pubblica israeliana e occidentale. Lo Stato ebraico ha terminato la stagione dell’innocenza, si è reso conto di non essere invincibile e ha capito che la vera vittoria è quella della pace. Ma la via della pace è ostruita dall’odio e dal razzismo di movimenti terroristici che hanno dichiarato una guerra implacabile all’Occidente, mettendo in conto i tanti vincoli che impediscono alle nazioni democratiche di reagire adeguatamente.
A pensarci bene l’aggressione del 7 ottobre richiama alla memoria l’offensiva del Tet, che fu – durante la guerra del Vietnam alla fine di gennaio 1968 –, un’operazione lanciata dai Viet Cong e dall’Esercito del Nord (Nva) operante nel Sud. Sebbene tatticamente infruttuosa, quell’offensiva mandò in frantumi l’ottimismo americano sull’andamento della guerra e convinse molti che fosse impossibile da vincere.